Città del Vaticano - “Tutti gli uomini, pur nella varietà delle loro appartenenze etniche, culturali, religiose, sociali e politiche, costituiscono un dato di sostanziale uguaglianza che non può essere mai messo in crisi se non da una volontà violenta ed oppressiva”. Lo ha detto questa mattina mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, intervenendo alla XX Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti (fino a domani), sul tema “La sollecitudine pastorale della Chiesa nel contesto delle migrazioni forzate. Ci troviamo – ha detto il presule - dentro una società che è “dominata da una cultura di morte. Da una concezione di una realtà in cui anziché riconoscere, favorire e promuovere la vita umana in tutte le sue dimensioni ed aspetti, si realizza una situazione in cui prevale la negatività e la morte. E la morte purtroppo non soltanto come esperienza di violenza patita in queste enormi vicende in cui la vita umana è stata, ed è, sistematicamente negata per ragioni di carattere razziale, politico, economico e sociale, e quindi non soltanto la morte come privazione della vita, ma anche la morte come avvilimento della vita, come negazione del fatto che l’uomo abbia in sé un valore irriducibile a qualsiasi altra connotazione, a qualsiasi condizionamento naturale o indotto”. Per mons. Negri questa cultura della morte “non si combatte opponendo ad essa, in modo ideologico, una presunta cultura della vita, caratterizzata da valori umani, culturali e sociali che permangono però in una formulazione astratta e quindi anch’essa ideologica. Alla cultura della morte non si contrappone ideologicamente una cultura della vita, come alla cultura della morte che si caratterizza da un ateismo dilagante non si contrappone una cultura religiosa fatta di formule religiose e valori religiosi. Alla cultura della morte la Chiesa è chiamata ad opporre, in maniera limpida e coraggiosa una esperienza reale, storica e concreta della cultura della vita” E questa cultura è “la presenza della Chiesa stessa, della sua obiettiva realtà sacramentale e sociale”.Per Laura Zanfrini dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la “dignità dell’essere umano deve essere anteposto a qualsiasi altra considerazione o finalità, per quanto meritevole o ragionevole quest’ultima possa apparire”. “A fronte della dimensione collettiva” che le migrazioni forzate sono venute assumendo –ha spiegato – la “protezione deve sempre essere garantita ai singoli individui”. La presenza dei migranti e dei rifugiati – ha detto Zanfrini – “chiama la fede e l’esperienza ecclesiale a ripensarsi” e “offre alle Chiese locali l’occasione di verificare la loro cattolicità e di ricercare il suo volto autentico di sperimentare quel pluralismo etico e culturale che dovrebbe costituire una dimensione strutturale della Chiesa; di incorporare in sé l’immensa varietà della condizione umana in tutte le sue legittime manifestazioni; di non limitarsi ad accogliere, ma di fare comunione con le diverse etnie; di essere provocati all’approfondimento della propria fede; di acquisire una mentalità più universale, meno localistica”. Concludendo cita i rifugiati per motivi religiosi: “costoro – spiega la docente - interpellano le nostre Chiese locali che hanno, nel tempo, visto ridursi la loro capacità di attrarre fedeli: si può immaginare il disorientamento che ciò può provocare in chi ha visto la propria vita messa a repentaglio per aver scelto di essere un cattolico praticante”.
“Oltre a sollecitare un impegno particolare da parte della Chiesa – per esempio attraverso la richiesta di programmi e dispositivi di protezione ad essi specificamente riservati, sulla scorta di quanto già avviene in alcuni Paesi –, il loro arrivo – ha concluso - dona una vivacità insperata alle Chiese occidentali, sollecita a condividere la medesima fede con cristiani che provengono da altri Paesi e altri continenti, fa nascere possibilità evangeliche nascoste, apre spazi alla creazione di una nuova umanità, preannunciata nel mistero pasquale: una umanità per cui ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera”. (Raffaele Iaria)
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