Le donne sono circa la metà degli oltre 200 milioni di migranti
internazionali del mondo. Se si esclude l’Africa, diventano la netta
maggioranza. Molta attenzione hanno giustamente suscitato negli ultimi due
decenni le vicende delle donne che emigrano da sole, per lavoro, facendosi
carico del mantenimento della loro famiglia. Per contro, sappiamo poco di
soggetti più tradizionali: le donne che arrivano per ricongiungimento
familiare, al seguito dei mariti.
Ne abbiamo studiato due gruppi nell’ambito di una recente ricerca promossa
da Eupolis (Regione Lombardia): donne romene e donne originarie del Bangladesh.
È risultata decisamente più integrata nella società italiana l’esperienza delle
donne romene, favorite dalla cittadinanza europea, dalla prossimità linguistica,
dalla socializzazione negli ambiti di lavoro extradomestico. Più rivolta invece
verso l’ambito domestico e comunitario quella della maggioranza delle donne
bangladesi, sfavorite sotto tutti e tre gli aspetti.
Ne derivano alcuni spunti di riflessione. In primo luogo, il destino delle
donne ricongiunte non è necessariamente consegnato alla subalternità e alla
dipendenza nei confronti dei mariti. Pur arrivando al loro seguito, nel giro di
pochi anni quasi tutte le donne romene hanno imparato l’italiano e avuto
accesso al lavoro retribuito. Anche nel gruppo più svantaggiato abbiamo
rintracciato casi di successo: alcune donne bangladesi hanno avviato attività
professionali e imprenditoriali.
In secondo luogo, l’anzianità migratoria non basta da sola a produrre
integrazione. Le interviste alle donne bangladesi mostrano ad esempio che,
anche dopo diversi anni, molte non sono in grado di padroneggiare a sufficienza
la lingua italiana e quindi di muoversi autonomamente nella società ricevente.
Affidarsi semplicemente al tempo, nell’aspettativa che in modo automatico
riempia il divario tra lingue e culture, è illusorio. Occorrono invece
investimenti consapevoli e mirati.
Terzo, visibilità e rapporto con i servizi di mediazione e di aiuto non
sono necessariamente correlati con processi di integrazione. Nella ricerca è
risultato molto più difficile raggiungere e intervistare le donne romene,
rispetto alle donne bangladesi. Le seconde infatti dipendono molto di più da
mediatori e servizi specializzati, quindi, una volta individuati gli attori e i
luoghi che fanno da tramite fra le loro necessità e la società ricevente, è
stato relativamente agevole entrare in contatto.
In conclusione, se si vuole evitare la formazione di comunità parallele,
occorre partire da cose concrete: favorire l’accesso alla lingua italiana,
sfruttare l’occasione della partecipazione dei figli al sistema educativo,
incentivare la partecipazione al lavoro extradomestico e l’interazione con i
servizi pubblici.
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