15 maggio 2013

Donne migranti, una ricerca


Le donne sono circa la metà degli oltre 200 milioni di migranti internazionali del mondo. Se si esclude l’Africa, diventano la netta maggioranza. Molta attenzione hanno giustamente suscitato negli ultimi due decenni le vicende delle donne che emigrano da sole, per lavoro, facendosi carico del mantenimento della loro famiglia. Per contro, sappiamo poco di soggetti più tradizionali: le donne che arrivano per ricongiungimento familiare, al seguito dei mariti.
Ne abbiamo studiato due gruppi nell’ambito di una recente ricerca promossa da Eupolis (Regione Lombardia): donne romene e donne originarie del Bangladesh. È risultata decisamente più integrata nella società italiana l’esperienza delle donne romene, favorite dalla cittadinanza europea, dalla prossimità linguistica, dalla socializzazione negli ambiti di lavoro extradomestico. Più rivolta invece verso l’ambito domestico e comunitario quella della maggioranza delle donne bangladesi, sfavorite sotto tutti e tre gli aspetti.
Ne derivano alcuni spunti di riflessione. In primo luogo, il destino delle donne ricongiunte non è necessariamente consegnato alla subalternità e alla dipendenza nei confronti dei mariti. Pur arrivando al loro seguito, nel giro di pochi anni quasi tutte le donne romene hanno imparato l’italiano e avuto accesso al lavoro retribuito. Anche nel gruppo più svantaggiato abbiamo rintracciato casi di successo: alcune donne bangladesi hanno avviato attività professionali e imprenditoriali.
In secondo luogo, l’anzianità migratoria non basta da sola a produrre integrazione. Le interviste alle donne bangladesi mostrano ad esempio che, anche dopo diversi anni, molte non sono in grado di padroneggiare a sufficienza la lingua italiana e quindi di muoversi autonomamente nella società ricevente. Affidarsi semplicemente al tempo, nell’aspettativa che in modo automatico riempia il divario tra lingue e culture, è illusorio. Occorrono invece investimenti consapevoli e mirati.
Terzo, visibilità e rapporto con i servizi di mediazione e di aiuto non sono necessariamente correlati con processi di integrazione. Nella ricerca è risultato molto più difficile raggiungere e intervistare le donne romene, rispetto alle donne bangladesi. Le seconde infatti dipendono molto di più da mediatori e servizi specializzati, quindi, una volta individuati gli attori e i luoghi che fanno da tramite fra le loro necessità e la società ricevente, è stato relativamente agevole entrare in contatto.
In conclusione, se si vuole evitare la formazione di comunità parallele, occorre partire da cose concrete: favorire l’accesso alla lingua italiana, sfruttare l’occasione della partecipazione dei figli al sistema educativo, incentivare la partecipazione al lavoro extradomestico e l’interazione con i servizi pubblici.

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