Il Collegio dei teologi della Congregazione per le cause dei santi ha attestato ieri con voto unanime il martirio in odium fidei dell’arcivescovo ucciso mentre celebrava messa. Cadono tutte le pretestuose obiezioni dottrinali alla sua beatificazione.
Romero è martire. È stato ucciso in odium fidei. Lo ripeteva con voce fioca Giovanni Paolo II già nel novembre 2003, parlando con alcuni vescovi salvadoregni venuti a Roma in visita ad limina. Lo hanno attestato ieri con voto unanime anche i membri del Congresso dei teologi della Congregazione per le cause dei Santi, riconoscendo il martirio formale e materiale dell’arcivescovo ammazzato sull’altare mentre celebrava messa, il 24 marzo 1980. Lo rivela Stefania Falasca su Avvenire, aggiungendo che «ora, secondo la prassi canonica, non resta che il giudizio del Congresso dei vescovi e dei cardinali e infine l’approvazione del Papa per la conclusione dell’iter che lo porterà presto alla beatificazione».
Ripercorrendo tutti i passi del processo, l’autrice dell’articolo sottolinea che il pronunciamento sul martirio di Romero «segna certamente l’apice di una causa travagliata». Dove le obiezioni e i tentativi di rallentare o insabbiare il cammino del vescovo martire verso la beatificazione si erano spesso rivestiti di argomentazioni teologiche e dottrinali. Per questo il pronunciamento dei teologi che collaborano con il Dicastero vaticano per i Santi appare dirimente e cruciale, ben più del prossimo – e scontato – nihil obstat dei vescovi e dei cardinali membri della stessa Congregazione.
Il riconoscimento del martirio Romero conferma in maniera definitiva che l’arcivescovo salvadoregno è stato ucciso in odium fidei. A spingere i carnefici non fu la semplice brama di far fuori un nemico politico, ma l’odio scatenato dall’amore per la giustizia e dalla predilezione dei poveri che Romero manifestava come riverbero diretto della sua fede in Cristo e della sua fedeltà al magistero della Chiesa. Nel delirio sanguinario che martoriava il Salvador in quegli anni atroci, Romero fu il buon pastore disposto a offrire la vita per seguire la predilezione per i poveri propria del Vangelo. La fede hanno riconosciuto i teologi del dicastero vaticano - era il punto sorgivo del suo operare, delle parole che pronunciava e dei gesti che compiva nel contesto stravolto in cui era chiamato a operare e a vivere come arcivescovo.
Il pronunciamento dei teologi della Congregazione fa piazza pulita di decenni di operazioni volte a propagandare un’interpretazione solo politica dell’eliminazione di Romero. Il riconoscimento del suo martirio in odium fidei conferma che nel Salvador degli squadroni della morte e della guerra civile, la Chiesa subiva una persecuzione feroce da parte di persone che almeno sociologicamente erano cristiane. Lo scatenarsi dell’odio che lo uccise era coltivato e condiviso anche da settori dell’oligarchia abituati a andare a messa o a fare offerte e donazioni alle istituzioni ecclesiastiche. Comprese le associazioni di sedicenti «donne cattoliche» che pubblicavano sui giornali accuse e cattiverie fabbricate a arte contro di lui.
Il nihil obstat dei teologi dissipa anche la cortina fumogena di insinuazioni montate a arte per accreditare la favola del Romero filo-guerrigliero, agitatore politico, influenzato e soggiogato dal marxismo. Il processo per la causa di beatificazione – di cui è postulatore l’arcivescovo Vincenzo Paglia – ha verificato autorevolmente e in via definitiva quello che ripetevano da sempre tutti gli amici del vescovo martire: Romero – come ha scritto il professore Roberto Morozzo della Rocca – era «un sacerdote e vescovo romano, obbediente alla Chiesa e al Vangelo attraverso la Tradizione», chiamato a svolgere il suo ministero di pastore «in quell’Occidente estremo e stravolto che era l’America Latina di quegli anni». Dove le forze militari e gli squadroni della morte reprimevano con ferocia un popolo intero per conto dell’oligarchia. Dove i sacerdoti e i catechisti venivano ammazzati e nelle campagne diventava pericoloso possedere un Vangelo. Dove bastava chiedere giustizia per essere bollato come comunista sovversivo. Dove la Chiesa era perseguitata perché si sottraeva al ruolo di braccio spirituale del potere oligarchico.
Eppure per anni, dopo il duemila, la causa di Romero è rimasta ferma con la motivazione che tutte le omelie e gli scritti del vescovo salvadoregno dovevano essere sottoposti ad esame presso la Congregazione per la dottrina della fede per verificarne l’ortodossia. In quegli anni, a assumere un ruolo preponderante nella gestione del dossier-Romero — e a spingere perché la causa non andasse avanti - fu in particolare il cardinale colombiano Alfonso Lòpez Trujillo, a quel tempo influente consultore dell’ex Sant’Uffizio, scomparso nel 2008.
In quel frangente, alla Congregazione per le cause dei santi arrivarono disposizioni orientate in senso dilatorio. Secondo alcuni settori, portare Romero agli onori degli altari equivaleva a beatificare la Teologia della liberazione o addirittura i movimenti popolari d’ispirazione marxista e le guerriglie rivoluzionarie degli anni Settanta. Per questo, secondo alcuni, le motivazioni del martirio in odium fidei non potevano essere applicate al suo caso. Mentre erano servite per far salire all’onore degli altari già nel 2010 Jerzy Popieluszko, il sacerdote 37enne trucidato nel 1984 da un commando dei servizi di sicurezza della Polonia comunista.
Adesso sembra arrivato il momento anche per Oscar Arnulfo Romero. Non resta che aspettare. E non si dovrà aspettare molto, se si tiene conto che per la beatificazione dei martiri non è richiesto l’accertamento canonico di un miracolo realizzato per loro intercessione.
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