Nel mondo ci sono 50
milioni di persone in fuga, grazie agli sbarchi da noi ne arrivano meno di
180mila. Ma non siamo capaci di accoglierli.
C’è un tema su cui sembrano concentrarsi le fratture che feriscono la
nostra società: quella tra coscienza civile e verità dei fatti; tra paura e
speranza; tra diritto (inteso come insieme delle leggi) e diritti; tra legge e
umanità. È quello dei rifugiati e richiedenti asilo, tema in questi giorni
inscindibile dalle immagini dei naufragi e dei morti che affollano il
Mediterraneo, ma che nonostante questo sembra tirare fuori il peggio della
nostra società: dalle sparate di politici bulli che sfidano gli italiani e
farsi passare per rifugiati in modo da ricevere gli aiuti che ad essi
verrebbero dati (pur sapendo bene che nessun italiano, mai, percorrerebbe
queste strade fatte di povertà, incomprensione e paura), alle intemperanze di
cittadini che sui social network perdono ogni ritegno e invocano la strage
totale, contro questi nuovi “invasori”. Ignoranza? Razzismo? Cattiveria?
Sicuramente, la nostra società civile «a tratti sembra aver smarrito il senso
dell’umano».
È questa l’espressione che ha usato padre Camillo Ripamonti questa mattina alla presentazione
del Rapporto annuale 2015 del Centro Astalli, la
struttura dei Gesuiti che si occupa dei rifugiati. Sullo sfondo una cifra che
non è mai stata raggiunta dalla seconda guerra mondiale: nel 2014 cinquanta
milioni di persone in fuga, numero certamente destinato a crescere. La
crisi siriana, da sola, ha messo in fuga 11 milioni di civili, il 45% della
popolazione. Quelli che arrivano da noi sono, in realtà pochissimi, se pensiamo
che il Libano ha 2 milioni di profughi su 4 milioni di abitanti. In Italia i
migranti arrivati via mare sono stati nel 2014 meno di 170.800, e 64.900 circa
hanno fatto domanda di asilo: gli altri hanno proseguito il loro viaggio verso
altri Paesi europei.
Il percorso a ostacoli dell’integrazione
Secondo il centro Astalli, il nostro sistema di accoglienza è migliorato,
ma non abbastanza. Lo SPRAR, cioé il sistema di accoglienza e protezione per
richiedenti asilo e rifugiati, offre più di 22mila posti, da 3.500 che erano.
2.500 sono a Roma. Ma ci sono regioni che non collaborano: Lombardia e
Veneto accolgono un rifugiato ogni 2.000 abitanti, metà di quelli accolti dalle
regioni, nonostante siano quelle più ricche di risorse di ogni tipo.
Dopo la prima accoglienza, davanti ai rifugiati si prospetta un percorso
a ostacoli, che ritarda e a volte impedisce la conquista dell’autonomia e di un
minimo di sicurezza, impossibili se non si riesce ad avere casa e lavoro.
Particolarmente faticosa è la vita delle famiglie (quasi impossibile il
ricongiungimento), delle donne sole, delle vittime di tortura, più vulnerabili
e bisognose di cure anche psichiatriche. E la burocrazia non perdona, così come
l’applicazione troppo rigida delle norme: l’ultimo caso è quello della Questura
di Roma che, come ha denunciato il direttore dei programmi del centro Astalli Bernardino
Guarino, «sta rifiutando il rinnovo dei permessi di soggiorno a quelli che
hanno una cosiddetta residenza virtuale presso gli Enti che sono autorizzati a
rilasciarla da una delibera del Comune di Roma (Centro Astalli, Casa dei
Diritti Sociali, S. Egidio, Caritas ed altri).
I numeri del Centro Astalli
I numeri del lavoro del Centro Astalli sono impressionanti: 34mila
persone hanno avuto accesso ai servizi nelle sette sedi che esistono
in Italia, 21.100 a Roma. Le persone accolte nei centri di accoglienza sono 299
e quelle vittime di tortura o violenza che sono state accompagnate sono
state 556. I pasti distribuiti in un anno sono stati 91.550, 2.900.000 i costi
sostenuti. Tutto questo grazie a 446 i volontari e 49 operatori professionali.
Ma una cosa è chiara: un problema di queste dimensioni non può essere
affrontato dal Terzo settore da solo, né dalle sole amministrazioni. Serve un
lavoro di rete vero e costante, oltre che politiche adeguate e coraggiose
(Padre Ripamonti ne ha parlato nell’intervista rilasciata ieri a Reti Solidali)
Un lavoro che possa ridare speranza ai rifugiati, ma soprattutto a noi
stessi perché, secondo padre Ripamonti, «forse proprio i rifugiati potranno
restituirci quel volto umano che stiamo rischiando di perdere».