17 gennaio 2013

UNITÀ DEI CRISTIANI


Con le braccia aperte
Inizia domani la settimana di preghiera dedicata ai Dalit: intervista con il card. Kurt Koch

Vivere per la giustizia e la pace, combattere ogni forma di odio, razzismo, emarginazione per “una società costruita sulla dignità, sull’uguaglianza, sulla fraternità”. Questo l’impegno che i cristiani delle diverse Chiese intendono prendere preparandosi a vivere insieme la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che si celebra dal 18 al 25 gennaio e quest’anno ha per tema, “Quel che il Signore esige da noi” (cfr. Michea 6,6-8). Il testo delle meditazioni è preparato dallo Student Christian Movement of India (Scmi) che ha voluto porre all’attenzione delle Chiese mondiali lo stato di ingiustizia in cui vivono, nella cultura indiana, i Dalit. Il testo parte dalla testimonianza di una storia realmente accaduta a una donna della comunità Dalit chiamata Sarah. L’incidente narrato ebbe luogo nel 2008 in Khandamal, nello Stato di Orissa, nell’India centrale, dove per un mese si scatenò grande violenza. I cristiani (in maggioranza Dalit) furono attaccati da estremisti Hindu. I luoghi di culto e le case dei cristiani furono distrutti. Orissa è una delle città più povere dell’India. Il bilancio della violenza fu di 59 morti, 115 chiese cristiane distrutte, case danneggiate, e un totale di 50.000 cristiani senza tetto che cercarono rifugio nelle foreste e, più tardi, nei campi-profughi organizzati dal Governo indiano. Maria Chiara Biagioni, per il Sir, ne ha parlato con il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. 

Quale significato ha il tema della libertà religiosa per la Settimana di preghiera? 
“I testi per la Settimana di preghiera evidenziano quest’anno il problema fondamentale d’ingiustizia che esiste nel sistema di casta che vige in India. Dietro a questa scelta, emerge però un problema ancor più fondamentale. La fede cristiana è la fede più perseguitata nel mondo: l’80% degli uomini perseguitati a causa della loro appartenenza religiosa sono cristiani. Giovanni Paolo II fu il primo a parlare dell’ecumenismo dei martiri perché tutte le Chiese e comunità ecclesiali hanno i loro martiri. Di fronte, quindi, alla persecuzione dei cristiani nel mondo, la Chiesa cattolica deve approfondire l’insegnamento della libertà religiosa perché - come ha detto Benedetto XVI - è il fondamento di tutti i diritti umani e questo approfondimento è molto importante, anche attraverso la preghiera”.

Cosa possono fare le Chiese cristiane? 
“Penso che, in primo luogo, occorra essere solidali nelle situazioni di violenza, sopraffazione, persecuzione. Le Chiese devono essere più presenti e soprattutto in Europa i cristiani devono essere più coscienti di queste situazioni. Noi parliamo di molte cose, di molti problemi della fede e delle Chiese ma questa sfida molto grande non è sufficientemente presente. Mi sembra molto importante esprimere solidarietà affinché i perseguitati nel mondo a causa della loro fede non si sentano lasciati soli”. 

La Settimana è anche occasione per fare un bilancio “ecumenico”. Come sta vivendo la Santa Sede gli slanci in avanti in campo etico intrapresi nella Comunione anglicana?
“Penso che ci siano due problemi fondamentali. Il primo: l’obiettivo ecumenico nell’accezione della Chiesa cattolica è un’unità visibile della Chiesa nella fede, nei sacramenti, nei ministeri. Per cui i cambiamenti delle condizioni per l’accesso al ministero toccano fondamentalmente il processo ecumenico. Il secondo problema è che questi cambiamenti riconducono al fatto che le grandi sfide per i dialoghi ecumenici oggi non sono più di natura dottrinale della fede, ma sono soprattutto di natura etica. Negli anni ‘70-‘80, si diceva che la fede divideva ma l’agire univa. Oggi dobbiamo dire piuttosto il contrario con l’emergere di divisioni a livello etico. Si tratta, però, di una sfida da approfondire: non soltanto per la credibilità delle Chiese ma anche per la missione di portare il messaggio cristiano nelle nostre società. Se le Chiese e le comunità ecclesiali hanno visioni molto diverse tra loro a livello etico, non possiamo fare una buona evangelizzazione”. 

Un augurio al nuovo arcivescovo di Canterbury? 
“Spero che possiamo continuare le buone relazioni che abbiamo avuto con l’arcivescovo Williams. Spero che si possa continuare questo dialogo dell’amore e dell’amicizia e anche approfondire il dialogo della verità per le questioni che ci dividono ancora. E gli auguro buona forza e coraggio perché possa continuare il suo ministero in un momento in cui l’intera Comunione anglicana del mondo è attraversata da molte tensioni”.

Quale l’ostacolo al processo ecumenico che la preoccupa di più? 
“Penso che l’ostacolo fondamentale alla situazione ecumenica oggi è che non sappiamo più che cosa siano l’ecumenismo e l’obiettivo finale del movimento ecumenico. Non abbiamo più un consenso su questi temi fondamentali. Il sinonimo di pluralità è divenuto intolleranza e questa dogmatizzazione è un grande ostacolo. La sfida oggi è ritrovare la necessità e la bellezza dell’unità. La consapevolezza soprattutto che il cristianesimo non si può vivere senza l’unità. Soprattutto nell’Anno della fede dobbiamo approfondire le radici teologiche dell’ecumenismo. Questo non è diplomazia né politica ma qualcosa che va alla radice della nostra fede perché è quanto Dio esige da noi. Noi uomini non possiamo comunque fare l’unità né tantomeno prevedere le date in cui si arriverà a questa meta. L’unità è un dono dello Spirito Santo da invocare ma noi dobbiamo essere aperti a riceverlo questo dono”.

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