13 dicembre 2012

Nel Sinai eritrei ed etiopi continuano a morire


«È un problema dimenticato. Sembra che a nessuno importi della loro sorte. Eppure decine di persone continuano a morire, a essere torturate, a essere violentate». Abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo, è, allo stesso tempo, sconsolato e irritato dall’insensibilità che organizzazioni internazionali, Egitto, Israele e Stati Uniti hanno dimostrato nei confronti del dramma che i profughi eritrei ed etiopi vivono nella penisola del Sinai. Lui, insieme a un gruppo di operatori umanitari e giornalisti, denuncia il problema e chiede interventi per evitare nuove morti, ma ricevendo risposte interlocutorie. 

«Attualmente - spiega abba Mussie - sappiamo che nel Sinai ci sono tra i 250 e i 300 profughi eritrei ed etiopi. Sono stati sequestrati dalle bande di beduini. Quegli stessi trafficanti che contrabbandano armi, cibo e droga verso Israele e Gaza. Li tengono negli scantinati delle ville che si sono costruiti con i lucrosi proventi delle loro attività illecite. Li picchiano, li torturano. Le ragazze sono violentate e talvolta rimangono incinte». Questi profughi sono quasi tutti giovani scappati dal loro Paese per fuggire alla miseria e alla guerra. Dopo essere transitati per il Sudan arrivano in Egitto. Da qui, cercando di raggiungere Israele, sono costretti ad affidarsi ai beduini per attraversare il Sinai. Questi appartengono a grandi clan che vivono di traffici illeciti e solitamente li rapiscono chiedendo un ingente riscatto per il rilascio.

«Due anni fa - ricorda abba Mussie - chiedevano fino a 8mila dollari a persona. Oggi il riscatto medio si aggira sui 60mila dollari a persona. Le comunità di eritrei in Europa, Stati Uniti e Canada fanno collette per raccogliere le somme. Conosco famiglie che hanno venduto tutte le loro cose più preziose per pagare. Chi non può pagare chiede ad amici e conoscenti. Ogni settimana ricevo persone che mi chiedono soldi per i loro parenti nel Sinai. Faccio appelli durante le messe affinché i fedeli raccolgano il necessario. Ormai però le comunità non ce la fanno più a sopportare il peso del ricatto».

Abba Mussie, insieme a una delegazione di eritrei, nel 2010 è stato ricevuto da funzionari del Dipartimento di Stato Usa che hanno promesso che avrebbero fatto pressioni sull’Egitto per intervenire nel Sinai. «In effetti - continua il sacerdote -, pressioni ci sono state. Ma sradicare questo traffico è complicato perché alimenta la corruzione e ci sono troppe connivenze a livello politico. L’Egitto poi, in questi mesi, è sconvolto da troppe tensioni interne per preoccuparsi dei profughi eritrei».

Israele in questi anni ha cercato di contrastare i traffici dei beduini, arrestando i contrabbandieri, liberando i profughi e costruendo un muro sul confine. «Il muro - dice abba Mussie - serve a poco. I trafficanti hanno iniziato a costruire tunnel che lo bypassano e i traffici continuano. Se Israele ed Egitto coordinassero i loro sforzi potrebbero eliminare il problema alla radice. Ma in questo momento tutto è fermo. E anche le due risoluzioni adottate dall’Unione europea hanno rappresentato un segno positivo, ma poco efficace. Non prevedono infatti ritorsioni o sanzioni nel caso l’Egitto non blocchi il traffico».

Non solo non è cambiato nulla in positivo ma, se possibile, la situazione è peggiorata. Ai profughi che non riescono a pagare vengono asportati organi (reni, fegato, cuore, ecc.) che poi sono venduti agli ospedali. «Sappiamo - conclude abba Mussie - che nel Sinai gira una clinica mobile con medici compiacenti. Questi asportano gli organi che vengono poi, conservati in celle frigorifere, sono trasportati in ospedali egiziani o di altri Paesi arabi. A documentarlo sono alcuni filmati (con immagini molto forti). È uno scandalo che non può continuare».

Enrico Casale

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