Per una volta, nell’affrontare il tema di questa conferenza: Immigrazione: destinati a vivere insieme, non vorrei partire dagli immigrati e dagli aspetti legati alla loro presenza nei paesi di accoglienza - ovviamente un po’ ne parlerò - ma almeno all’inizio vorrei tentare di cambiare visuale e provare ad utilizzare l’angolo prospettico dei cittadini Europei autoctoni. Chiarisco subito quello che cercherò di dire: il problema del vivere insieme non è un problema che riguarda solo i cittadini immigrati, ma anche i cittadini dei paesi di accoglienza. Quello della convivenza è anche il nostro problema.
Tre recenti avvenimenti, assai significativi, in modo diverso ma convergente, evidenziano il nodo non risolto del “destino comune”, del vivere insieme che questa conferenza propone come tema di discussione:
1) L’attentato terroristico in Norvegia;
2) i fatti di violenza verificatesi a Londra questa estate;
3) la reazione europea fredda e distante a quel vento di libertà che è stata definita Primavera araba e che in queste giornate vede dei momenti di interessante approfondimento.
Se il destino è “vivere insieme” si levano da più parti schegge impazzite che si rivoltano e che da questo destino si difendono. Ian Buruma a commento del terribile attentato in Norvegia, sul giornale americano The Nation denuncia la “visione” cupa dei “cattivi maestri”- nell’articolo sono citati alcuni dei capi degli ormai non irrilevanti partiti xenofobi europei -: “l’Europa – scrive Ian Buruma - è entrata in un'altra ‘fase Weimar’. Secondo questa visione siamo in guerra e i nemici dei populisti non sono solo i musulmani, ma anche i progressisti, i multiculturalisti, che stanno svendendo l’Europa.”
E anche la terribile estate londinese - secondo l’analisi di Will Hutton sul The Observer - è rivelatrice di un disorientamento cupo e sospettoso “Non un obiettivo comune, non un destino condiviso, procediamo senza meta” dice l’autore che conclude le sue considerazioni evidenziando la necessità di costruire una nuova convivenza civile.
Che dire poi della diffidenza prima e della chiusura poi, come unica reazione alla “primavera araba”? Sono rimasta colpita dai commenti giornalistici preoccupati solo dell’arrivo degli immigrati, senza lo sforzo di una comprensione più articolata di quello che si presentava e si presenta tuttora come un nuovo ‘89, un nuovo muro di Berlino che sta cadendo. Il momento è delicato, tuttavia quanto l’Europa potrebbe accompagnare e sostenere questo vento di cambiamento e di libertà.
Peraltro dal gennaio ad oggi si contano meno di 50 mila arrivi di profughi in Italia, e quindi in Europa! Non proprio un’invasione!
Il futuro dell’Europa dipende dall’immigrazione?
Il futuro di crescita o decrescita demografica ed economica di molti paesi europei dipende in buona parte anche dalla presenza o meno di cittadini stranieri. Alcuni dati. Dal recentissimo rapporto dell’Eurostat sulla demografia europea (28 luglio 2011): nel 2010 da circa 501 milioni di abitanti siamo passati a 502 milioni e mezzo (l’aumento è stato di circa un milione quattrocentomila). I movimenti migratori hanno contribuito per ben il 60 % a questo aumento della popolazione dell’Europa a 27.
La Germania, dal canto suo, ha il più basso tasso di natalità dell’Unione Europea (sempre a 27), cioè l’8,3 per mille, ed ha un saldo negativo, insieme alla Romania (paese con una forte emigrazione che spiega il dato) con l’Ungheria, la Bulgaria e la Lettonia.
Nell’Unione Europea, in un anno, sono diminuiti di ben 200 mila i nuovi permessi di residenza a stranieri non comunitari rispetto all’anno precedente. Il dato è riferito al 2009 ma è ragionevole attendersi un’ulteriore e ancora più marcata diminuzione nei prossimi anni.
Colpisce la discrasia tra le intelligenti analisi dei documenti delle agenzie europee e il dibattito impreciso e fortemente irrazionale del discorso pubblico. Riporto ancora il rapporto sulla demografia di Eurostat. Ne consiglio la lettura per le interessanti considerazioni circa i mutamenti demografici letti sotto una prospettiva non consueta e positiva: “l’avvenire dell’Europa – cito - dipende in larga misura dalla sua capacità ad esplorare il grande potenziale dei due segmenti che aumentano più rapidamente in seno alla sua popolazione: le persone anziane e gli immigrati.”
Anziani e stranieri, in realtà, sono i due segmenti che più sgomentano e sui quali meno si ragiona in termini di “grande potenziale”. Manca una visione del futuro cha sappia dare il giusto posto a queste due importanti componenti del tessuto sociale.
Andrea Riccardi in più occasioni – citando il Beato Giovanni Paolo II - ha evidenziato una sofferenza dell’uomo contemporaneo. “Il mondo soffre per mancanza di visioni”. Per quel che riguarda l’Europa questo è verissimo.
Sarebbe necessaria una vera politica comune europea in tema di migrazioni attraverso la creazione di strumenti operativi europei che superino ed integrino le esigenze diverse di ogni singolo Stato, senza limitarne la sovranità. La sfida demografica per l’Europa è qualcosa di nuovo e richiede il coinvolgimento non solo dei singoli Stati ma uno sforzo comune per fare in modo che il declino dovuto all’invecchiamento sia contrastato.
In questo contesto un rinnovato rapporto con il continente africano per l’Europa è decisivo, non solo dal punto di vista demografico ma anche per la vicinanza geografica e culturale: investire sui paesi africani anche a partire dalle migrazioni può rappresentare una grande chance.
Convivenza: una parola che manca nel nostro vocabolario europeo
Le difficoltà del vivere insieme tra cittadini europei e nuovi cittadini immigrati, sono sotto gli occhi di tutti. Il discorso pubblico, del resto, non fa che evidenziare, drammatizzare queste difficoltà. D’altra parte è vero: vivere insieme provoca delle incomprensioni e non tutto è facile. L’insicurezza e la paura per un estraneo che non si conosce possono generare aggressività. Si tende a chiudersi, a isolarsi.
Un’espressione di queste difficoltà la possiamo trovare negli ormai numerosi crimini razzisti che si verificano in Europa. Non mi soffermerò su questo se non per sottolineare la forza e la pericolosità del fenomeno “razzismo” di questa – ripeto - malattia grave dei nostri tessuti sociali che con efficacia narrativa Romain Gary descrive con il ripugnante volto di Filoche, il dio della meschinità e dell’odio, appostato “all’ingresso del mondo abitato, - cito Gary- che sta gridando: «Sporco americano, sporco arabo, sporco ebreo, sporco russo, sporco cinese, sporco negro».(…) nonostante il suo aspetto orrendo è uno degli dei più potenti e più ascoltati, lo si trova sempre dappertutto; è uno dei più zelanti guardiani della nostra terra, e ce ne contende il possesso con malizia e abilità”.
Come non lasciarci intrappolare dall’inganno di Filoche? La convivenza è l’arma più efficace e forse l’unica possibilità che abbiamo per riprenderci il controllo e il governo di fenomeni epocali come l’immigrazione ma alla fine anche il controllo delle nostre stesse esistenze troppo rattrappite dalle paure. Credo che attorno ai temi della convivenza si giochi una partita ben più larga e decisiva: quella di un futuro che deve ritrovare le ragioni di una speranza.
Che cosa è la convivenza (i problemi di una definizione)
Di cosa stiamo parlando quando diciamo “convivenza”? la risposta non è scontata. Riprendo Alexander Langer e il suo La scelta della convivenza quando offre i suoi dieci punti per la convivenza inter-etnica e tra l’altro ne definisce un percorso: “conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: ‘più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci intenderemo’”.
Jonathan Sacks, in un breve e significativo passaggio della sua riflessione sulla dignità della differenza, a mio avviso dà una bella immagine di convivenza quella della conversazione. Dice Sacks: “parlare delle nostre paure, ascoltare quelle degli altri. Condividendo le nostre vulnerabilità si scopre una genesi di speranza”.
Non nego che questa ultima definizione - convivenza come conversazione - mi trova molto in sintonia. La Comunità di Sant’Egidio ha declinato la sua accoglienza alle persone immigrate in tante maniere: la scuola di italiano, il centro di accoglienza, la difesa dei diritti. Ma il lavoro più importante che come Comunità ci vede impegnati, e che mi sembra essere decisivo per vincere questa sfida è proprio la conversazione. Martin Buber – solo per inciso - vede nella conversazione autentica i presupposti per una memorabile fecondità comunitaria. La costruzione sociale ha come suoi presupposti conversare, parlare, incontrarsi, condividere “le nostre vulnerabilità”, i momenti belli come quelli difficili. Vivere insieme insomma è un percorso che richiede convinzione, entusiasmo, ed è un vero e proprio metodo per approcciare un tema complesso, quello dell’immigrazione che è oggetto – va detto - di moltissime semplificazioni e distorsioni.
La convivenza necessaria come il pane
Il bisogno di convivenza. Per parlare di questo bisogno descrivo brevemente la nostra Scuola di lingua. La scuola di lingua e cultura italiana della Comunità di Sant’Egidio nasce nel 1982 (gli immigrati in Italia allora non arrivavano a 350 mila). La scuola, aspetto non trascurabile, è completamente gratuita, gli studenti non pagano, e gli insegnanti ovviamente non sono pagati.
Per conversare, per convivere è necessario comprendersi e quindi la lingua è la chiave che permette di entrare in una cultura, in una società, che permette di comprendersi e di superare le incomprensioni e le difficoltà.
Quello che abbiamo capito - e questa è l’esperienza di chiunque abbia una conoscenza e un contatto anche superficiale con persone immigrate - è che c’è una grandissima domanda di integrazione, lo vediamo nella domanda di conoscere i paesi ospitanti, di conoscerne la cultura, le opere d’arte, la religione e le tradizioni. Il grande desiderio di incontro, di amicizia, di integrazione, che i nostri amici stranieri esprimono, andrebbe raccolto e riconosciuto ed è la strada maestra per convivere.
La scelta fatta dagli inizi fino ad oggi con convinzione è stata quella di collocare il bisogno di comunicare, il bisogno di interagire, il bisogno di rompere l’isolamento, come un “bisogno primario” come il mangiare, come la casa. La convivenza serve per vivere come il pane. Quando parliamo delle persone immigrate questo è chiaro. Ma gli europei hanno chiaro che quello della convivenza è un bisogno primario anche per loro? Necessario e indispensabile per vivere? Interagire, rompere l’isolamento, comunicare non è il bisogno dell’anziano europeo? Del giovane londinese? Della casalinga delle banlieue parigine?
La convivenza: una sfida per i credenti
Convivere, conversare, incontrarsi è davvero una benedizione. Ne sono convinta. “Chi crede in Dio e nell’Ultimo Giorno sia generoso con l’ospite” dice un famoso Hadith del Profeta Mohammed.
Nel Libro della Genesi è descritta la lotta tra Giacobbe e un uomo misterioso. Dura tutta la notte fino allo spuntare dell’aurora. “non ti lascerò se non mi avrai benedetto”. Non lasciare andare l’altro per riceverne in cambio una benedizione. La Bibbia così racconta questa lotta: Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui.” (Gen. 32, 25-26)
Io vedo così la convivenza: un lotta tenace per non lasciare andare l’altro, e questa poi si rivela essere una grande benedizione. Il nome dell’Altro resta misterioso, Giacobbe nel rivelare il suo si fida, diventa vulnerabile, si lascia ferire, ma alla fine anche cambia il suo nome e la sua diventa una grande storia.
Non tutto è facile ma l’Europa può per il suo futuro fare a meno di questa benedizione? Può fare a meno dell’altro? Come ha detto Il Papa Benedetto XVI, può congedarsi dalla storia?
La convivenza è un destino ma è anche una sfida che va raccolta con tenacia, con convinzione, e con entusiasmo.
Daniela Pompei
Comunità di Sant'Egidio, Italia