15 febbraio 2015

Il neo cardinale Montenegro, la 'voce dei migranti' nel Collegio Cardinalizio

Fresco di porpora, l'arcivescovo di Agrigento racconta le emozioni per il Concistoro di oggi e il suo impegno pastorale per questa gente "che vuole solo vivere". Un impegno che ora non diminuirà, anzi...

Alle visite ‘di calore’ in Aula Paolo VI il gruppo venuto a rendergli omaggio era probabilmente il più numeroso: 1500 fedeli circa sono partiti da Agrigento e da ogni parte della Sicilia per venire a Roma e salutare il caro “don Franco”, ovvero il cardinale Francesco Montenegro, tra i 20 nuovi porporati creati nel Concistoro di oggi da Papa Francesco.
Che sia un vescovo molto amato sembra evidente; ma oltre alle sue doti umane, all’attenzione particolare per i giovani e per le fasce sociali meno abbienti, il tratto caratteristico del neo porporato è l’impegno per gli immigrati.  
Il “vescovo dei migranti” viene chiamato infatti Montenegro. Ma non solo per il suo incarico di presidente della commissione Cei per le migrazioni, o quello di presidente della fondazione “Migrantes”, o ancora per la responsabilità pastorale nel territorio di Lampedusa: per il cardinale siciliano il servizio a favore di questa povera gente è una vera vocazione che nasce da dentro.
E proprio la voce di questi rifugiati porterà ora nel Collegio Cardinalizio. “Perché non dovrei farlo?”, dice a ZENIT che lo ha incontrato fresco di porpora, “solo perché ora sono cardinale il mio impegno verrà meno? Assolutamente no, anzi…”.
La sua nomina – che tra l’altro dice di aver ricevuto “inaspettatamente, in ritardo e da altri” - è proprio per dimostrare che “l’attenzione che io do al mondo dei migranti è la stessa che la Chiesa vuole dare e che anche le comunità ecclesiali danno a queste persone, che vengono spalmate per tutto il territorio italiano”.
Un segnale, questo, secondo il neo porporato, “che oggi è possibile vivere la carità”. Carità che tuttavia non è “l’elemosina, cioè ti do qualcosa e poi ti saluto e vado via”, bensì “la carità di cui parlava stamane il Papa nella sua omelia, la capacità cioè di condivisione, di guardare l’altro nel volto e se è curvato a terra, piegarsi a rialzarlo”.
“Credo – afferma Montenegro - che oggi ci viene chiesto di essere come il buon Samaritano: a chi ha fede come credente, a chi non crede almeno in virtù di quel valore che ha la vita che va sempre rispettata”.
La sua, dunque, non è ‘una porpora per Lampedusa’, ma “una porpora per la Chiesa che mi chiama a servire la Chiesa”, afferma. “Se il Papa – aggiunge il cardinale - mi chiede di avere un impegno più ampio che guardi un po’ il mondo, significa che dovrò intensificare il mio lavoro”.
Anche perché, ora come ora, dopo una strage come quella dei giorni scorsi in cui oltre 400 persone sono morte al largo del Mediterraneo, gli sforzi devono essere necessariamente aumentati. E “non si dovrebbe più usare la parola ‘emergenza’, perché emergenza non è”, rimarca l’arcivescovo di Agrigento. “Emergenza – prosegue - è un qualcosa che capita una volta ogni tanto, in questo caso certi drammi li vediamo ripetersi ogni giorno e sempre si ripeteranno”.
Allora – prosegue – “se questo fa parte della vita quotidiana, bisogna prepararsi ad affrontare la questione con delle leggi non che mettano solo delle toppe, ma permettano di cambiare stile e far sì che questa gente possa essere accolta”.
Soprattutto, sottolinea Montenegro, “c’è bisogno di una scelta politica che sia forte e capace di evitare che persone che vogliono vivere devono invece morire”. Parole forti che il cardinale ha pronunciato anche davanti al Consiglio d’Europa, affermando che “tanti morti ci pesano sulla coscienza e non si può permettere che tante vite si perdano così”.
La stessa Europa, tuttavia, “tenta di dare risposte che non sono risposte, ma tentativi”. E “così non può andare”, dice il presule. Anche questo intervento in Libia, che si propone adesso come scorciatoia per risolvere alla radice la problematica della migrazione, è da valutare con cautela. “Bisogna capire che valore si dà alla parola ‘intervento’ - osserva il cardinale -. Intervenire non significa andare a far guerra, ma aprire un dialogo e tentare di vedere cosa fare insieme. Se è questo l’intervento, allora ben venga!”.
Per il cardinale prima di intervenire bisogna però superare “la sindrome della paura e la sindrome dell’indifferenza”: “Il Papa l’ha denunciato più volte, parlando di una 'globalizzazione dell'indifferenza'” - ricorda - "e noi come credenti, io come vescovo, siamo chiamati ad impegnarci perché la solidarietà, guardare l’altro nel volto possa diventare lo stile di ogni cristiano e di ogni comunità”.
Ma queste preoccupazioni verranno dopo. Per un momento il cardinale stacca la spina e si gode la gioia - seppur “adombrata” da queste problematiche - per la giornata solenne vissuta oggi. Questa mattina, alle 8, la Messa con la folta delegazione siciliana nella Chiesa di Santa Maria in Traspontina; poi la celebrazione nella Basilica Vaticana, alla presenza di tutti i cardinali e di due Papi.
“È una grande emozione – spiega – ma un’emozione comprensibile, perché è una situazione nuova, unica, trovarmi qui e sentire forte il senso di Chiesa”. Oggi, aggiunge, “ho provato tanti sentimenti di gioia, di inadeguatezza... Poi la fiducia del Papa, il Vangelo che mi chiede di dar tutto, il saluto con Benedetto XVI che è sempre così buono… Insomma, un miscuglio di sensazioni che devono ancora trovare il loro posto”.
E lo salutiamo così il neo cardinale, ancora un po’ frastornato, stretto nell’abbraccio di una fila impaziente di fedeli che, dopo circa due ore, non accennava a diminuire.


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