21 marzo 2015

IMMIGRATI, TESORO NASCOSTO

La cronaca, come la strage dei gommoni, ha sempre il sopravvento. E alla fine il senso comune sull’immigrazione si appiattisce sugli stereotipi dell’emergenza e dell’allarme sociale. Uno studio mostra, invece, come gli stranieri non siano un costo, bensì una ricchezza che salva, ad esempio, le casse previdenziali italiane.

di Gianni Ballarini

Scriviamo sotto dettatura degli orrori della “strage dei gommoni”. Con centinaia di persone scomparse nel Canale di Sicilia nella seconda settimana di febbraio. Trecento? Quattrocento? Mille migranti? Che importa? Sono corpi e storie senza peso specifico. Che affollano la nostra già traboccante cattiva coscienza. Quante altre stragi silenziose e ignote si sono susseguite ritmicamente in questi giorni, in questi mesi, in questi anni? Stragi utili, forse, per qualche giorno di commozione. Che si esaurirà presto – tra imbarazzante impotenza e burocratica indifferenza – senza lasciare conseguenze. Se non una: appiattire mediaticamente il fenomeno dell’immigrazione sugli stereotipi della cronaca. I migranti rappresentati solo come quelli che muoiono in mare, che sbarcano, che sono coinvolti in fatti di violenza o, peggio ancora, di terrorismo. Vittime o carnefici. Sfruttati o sfruttatori. Mentre l’immigrazione è anche altro: un fattore strutturale della società italiana. Non marginale. E neppure solo emergenziale o di allarme sociale.
La Fondazione Leone Moressa, con il contributo di Open society foundations, all’interno del progetto Il valore dell’immigrazione, ha monitorato per sei mesi, nel 2014, tre importanti quotidiani italiani (Corriere della Serala Repubblica e Il Sole 24 Ore) analizzandone 846 articoli dedicati all’immigrazione. Solo il 12% racconta il migrante che esce dalla gabbia dello stereotipo; quello inserito nella società, integrato, con un lavoro e che porta perfino benefici al sistema economico in generale. Tutto il resto è, appunto, sbarchi, emergenza profughi, criminalità, proteste. L’individuo scompare. I ricercatori hanno calcolato che, mediamente, solo una notizia su dieci rappresenta lo straniero in modo positivo. E questo contribuisce a costruire un senso comune negativo sull’immigrazione.
Da un sondaggio condotto da una tra le principali società britanniche di ricerca e marketing, Ipsos Mori, gli italiani risultano tra i peggio informati sulle caratteristiche di base del proprio paese. Valutano, ad esempio, che gli immigrati siano il 30% della popolazione, quando sono invece il 7%; mentre sottostimano, paradossalmente, il numero di contribuenti stranieri, ritenendo ininfluente quanto migliorino la previdenza sociale. Pensano, anzi, che usufruiscano in misura maggiore dei benefici sociali, quando, invece, accade esattamente l’opposto. Sono gli studiosi della Fondazione Leone Moressa a ricordarcelo: sommando tutte le entrate pubbliche dovute all’immigrazione (gettito fiscale, irpef, imposta sui consumi, sui carburanti, i permessi di soggiorno e i mutui previdenziali) e le spese (sanità, scuola, servizi sociali, accoglienza e spese per l’immigrazione irregolare) vi è un saldo positivo di quasi 4 miliardi di euro (16,5 miliardi di entrate; 12,6 miliardi di spese).
Sono gli stranieri, di fatto, a sostenere la nostra spesa pubblica. E ogni anno pompano nel sistema circolatorio italiano 123 miliardi di euro, l’8,8% della ricchezza prodotta in Italia. I 3,5 milioni di contribuenti nati all’estero pagano quasi 7 miliardi di tasse, mentre i 2,4 milioni di occupati stranieri rappresentano il 10,8% degli occupati totali. Certo, il loro tasso di disoccupazione, tra il 2007 e il 2013, è cresciuto ben più di quello degli italiani (9 punti contro 3) e ancora oggi uno straniero dovrebbe lavorare 80 giorni in più all’anno per avere la stessa retribuzione di un italiano, a livello medio. Ma è spiccato il loro spirito imprenditoriale. Secondo dati Confesercenti, nel secondo trimestre del 2014, il commercio è cresciuto di oltre 57mila occupati. Di questi, 31mila hanno trovato posto in un’attività gestita da imprenditori non italiani.
La Fondazione Leone Moressa, quindi, si rivolge agli operatori dei media affinché rappresentino un fenomeno in continua trasformazione, nelle sue variegate sfumature e sfaccettature. E che non gli facciano indossare una sola maschera. Quell’imposta dalla cronaca.