La cronaca, come la strage dei
gommoni, ha sempre il sopravvento. E alla fine il senso comune sull’immigrazione
si appiattisce sugli stereotipi dell’emergenza e dell’allarme sociale. Uno
studio mostra, invece, come gli stranieri non siano un costo, bensì una
ricchezza che salva, ad esempio, le casse previdenziali italiane.
di Gianni Ballarini
Scriviamo sotto dettatura degli
orrori della “strage dei gommoni”. Con centinaia di persone scomparse nel
Canale di Sicilia nella seconda settimana di febbraio. Trecento? Quattrocento?
Mille migranti? Che importa? Sono corpi e storie senza peso specifico. Che
affollano la nostra già traboccante cattiva coscienza. Quante altre stragi
silenziose e ignote si sono susseguite ritmicamente in questi giorni, in questi
mesi, in questi anni? Stragi utili, forse, per qualche giorno di commozione.
Che si esaurirà presto – tra imbarazzante impotenza e burocratica indifferenza
– senza lasciare conseguenze. Se non una: appiattire mediaticamente il fenomeno
dell’immigrazione sugli stereotipi della cronaca. I migranti rappresentati solo
come quelli che muoiono in mare, che sbarcano, che sono coinvolti in fatti di
violenza o, peggio ancora, di terrorismo. Vittime o carnefici. Sfruttati o
sfruttatori. Mentre l’immigrazione è anche altro: un fattore strutturale della
società italiana. Non marginale. E neppure solo emergenziale o di allarme
sociale.
La Fondazione Leone Moressa, con
il contributo di Open society foundations, all’interno del progetto Il
valore dell’immigrazione, ha monitorato per sei mesi, nel 2014, tre
importanti quotidiani italiani (Corriere della Sera, la
Repubblica e Il Sole 24 Ore) analizzandone 846 articoli
dedicati all’immigrazione. Solo il 12% racconta il migrante che esce
dalla gabbia dello stereotipo; quello inserito nella società, integrato, con un
lavoro e che porta perfino benefici al sistema economico in generale. Tutto
il resto è, appunto, sbarchi, emergenza profughi, criminalità, proteste.
L’individuo scompare. I ricercatori hanno calcolato che, mediamente, solo una
notizia su dieci rappresenta lo straniero in modo positivo. E questo
contribuisce a costruire un senso comune negativo sull’immigrazione.
Da un sondaggio condotto da una
tra le principali società britanniche di ricerca e marketing, Ipsos Mori, gli
italiani risultano tra i peggio informati sulle caratteristiche di base del
proprio paese. Valutano, ad esempio, che gli immigrati siano il 30% della
popolazione, quando sono invece il 7%; mentre sottostimano, paradossalmente, il
numero di contribuenti stranieri, ritenendo ininfluente quanto migliorino la
previdenza sociale. Pensano, anzi, che usufruiscano in misura maggiore dei
benefici sociali, quando, invece, accade esattamente l’opposto. Sono gli
studiosi della Fondazione Leone Moressa a ricordarcelo: sommando tutte le
entrate pubbliche dovute all’immigrazione (gettito fiscale, irpef, imposta sui
consumi, sui carburanti, i permessi di soggiorno e i mutui previdenziali) e le
spese (sanità, scuola, servizi sociali, accoglienza e spese per l’immigrazione
irregolare) vi è un saldo positivo di quasi 4 miliardi di euro (16,5
miliardi di entrate; 12,6 miliardi di spese).
Sono gli stranieri, di fatto, a
sostenere la nostra spesa pubblica. E ogni anno pompano nel sistema
circolatorio italiano 123 miliardi di euro, l’8,8% della ricchezza
prodotta in Italia. I 3,5 milioni di contribuenti nati all’estero
pagano quasi 7 miliardi di tasse, mentre i 2,4 milioni di occupati stranieri
rappresentano il 10,8% degli occupati totali. Certo, il loro tasso di
disoccupazione, tra il 2007 e il 2013, è cresciuto ben più di quello degli
italiani (9 punti contro 3) e ancora oggi uno straniero dovrebbe lavorare 80
giorni in più all’anno per avere la stessa retribuzione di un italiano, a
livello medio. Ma è spiccato il loro spirito imprenditoriale. Secondo dati
Confesercenti, nel secondo trimestre del 2014, il commercio è cresciuto
di oltre 57mila occupati. Di questi, 31mila hanno trovato posto in
un’attività gestita da imprenditori non italiani.
La Fondazione Leone Moressa,
quindi, si rivolge agli operatori dei media affinché rappresentino un fenomeno
in continua trasformazione, nelle sue variegate sfumature e sfaccettature. E
che non gli facciano indossare una sola maschera. Quell’imposta dalla cronaca.