Prosegue l’esproprio delle terre
ancestrali dei pastori masai di Loliondo per garantire il sollazzo di pochi
ricchi privilegiati in una riserva di caccia esclusiva, data in concessione
alla società di un cittadino di Dubai. Un insopportabile caso di land grabbing.
Ma i masai preferiscono morire piuttosto che perdere la loro terra.
di Bianca Saini
Nella foto in alto dei masai nel
parco del Serengeti in Tanzania (fonte: walldesk.net). Sopra una mappa
della Tanzania con in evidenza la posizione della località di Loliondo e
l'ultimo video prodotto il 25 febbraio scorso dalle comunità masai locali per
perorare la loro causa, intitolato "Olosho".
Il sito web the
Ecologist denuncia la ripresa dell’espulsione delle comunità di
pastori masai di Loliondo dalle loro terre ancestrali, nel nord della Tanzania,
ai confini con il Kenya, per far posto ad una riserva di caccia esclusiva. Si
tratta di un caso di land grabbing particolarmente odioso, perché priva decine
di migliaia di persone dei propri mezzi di sussistenza e delle radici stesse
della propria identità per far posto al divertimento di pochi straricchi
privilegiati. Senza parlare del tipo di divertimento, francamente ben poco
“politically correct” in un momento storico in cui lo sforzo è quello della
conservazione della biodiversità, in particolare della fauna africana, che ha rischiato,
e in parte ancora rischia, l’estinzione.
La storia ha inizio nel 1992,
quando il governo della Tanzania da la licenza di organizzare battute di caccia
nella zona alla Ortelo Businness Corporation (Obc) di proprietà di un cittadino
di Dubai, imparentato con la famiglia regnante dell’emirato, permettendogli di
espandere la riserva su 1500 km² di territorio masai. Da allora la compagnia vi
ha costruito un aeroporto privato e un resort esclusivo, ma soprattutto ha
messo in atto misure che hanno di fatto limitato il diritto dei pastori masai
di utilizzare la propria terra per il pascolo e di accedere ai pozzi e alle
sorgenti. Nonostante le difficoltà, per circa vent’anni si era trovata una
modalità di convivenza. Nel 2009, però, è entrata in vigore una legge che
impedisce attività di pascolo e coltivazione su quel territorio. È da allora
che i masai di Loliondo subiscono periodicamente tentativi “legali” di
espulsione dalla loro terra, anche con l’uso della forza.
L’ultimo assalto risale alla metà
di febbraio, quando i ranger del parco nazionale del Serengeti (Senapa) hanno
cacciato gli abitanti con la minaccia delle armi, bruciando almeno 114 compound
e lasciando senza casa, cibo e assistenza medica dalle 2000 alle 3000 persone,
compresi molti bambini. Fonti locali aggiungono che il 21 febbraio il governo
ha inoltre intimato alla comunità di lasciare l’area entro 14 giorni, dunque
sono prevedibili nuove violenze.
Eppure, lo scorso novembre, forse
per la pressione internazionale dovuta anche ad una petizione diAvaaz.org firmata
da oltre 2 milioni di persone, il presidente tanzaniano, Jakaya
Kikwete, aveva dichiarato, via twitter che «Non c’è mai stato e mai ci
sarà nessun piano del governo della Tanzania di espellere i masai dalle loro
terre ancestrali». Ma, fanno ora osservare i leader comunitari di Loliondo,
alle dichiarazioni informali su twitter non era seguito nessun documento
formale.
Il calvario di queste comunità è
iniziato alla fine degli anni ’50, ancora in epoca coloniale, quando furono
espulse da buona parte delle loro terre ancestrali per far posto al parco del
Serengeti. Il territorio loro concesso era ristretto tra i parchi del
Serengeti, del Masai Mara e di Ngorongoro. È da questo ultimo scampolo di
territorio ancestrale, dove a fatica hanno ricostruito la propria vita
individuale, sociale, economica, culturale e comunitaria, che vengono ora
scacciati, in cambio, si dice, di un compenso di 500.000 dollari, di cui i
masai non sanno che fare. «La terra è la base della vita. Tiene tutto insieme,
animali, gente e cultura. Perdere la terra significa perdere tutto. Preferiamo
morire piuttosto che perdere la nostra terra. Vogliono prendere tutta questa
terra. Dove si aspettano che andiamo?». Così si esprime una donna masai
in un’intervista raccolta per un documentario sulla situazione e nessuna
dichiarazione può essere più efficace di questa.
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