Torino - In occasione della
Festa di San Giovanni Battista, patrono della città e della diocesi, il
pensiero del vescovo, mons. Cesare Nosiglia è andato anche alle “difficoltà di
un numero sempre crescente di migranti e di richiedenti asilo, approdati a Torino
dopo il miraggio di Lampedusa e ancora in bilico tra diritti e
accoglienza”. Per il presule “i volti delle fragilità sono sempre più
trasversali perché, ormai, nessuno può più dirsi al sicuro di fronte
all'evolversi spesso imprevisto della situazione”. Mons. Nosiglia è preoccupato
perché sente “tante volte” una Città che tende a “sfilacciarsi tra punte di
successo e vitalità e altre che possiedono un tessuto economico e sociale che
fatica a reggere la competizione, ma che lotta e guarda al futuro, nonostante
tutto, con fiducia. Ma c'è - ha aggiunto nell’omelia - una crescente
parte della popolazione che mi dice: ‘Per noi in questa città c'è ancora
posto?’. E quello che più mi preoccupa e mi fa soffrire in quanto pastore,
padre e amico è constatare che sta crescendo l'indifferenza, se non
il fastidio, nei confronti di questi fratelli e sorelle che sono in grave
difficoltà”.
Torino - è l’appello del
presule - “non può e non deve fare sua la cultura dello scarto, perché ha
le potenzialità e la passione per generare novità, non subire il cambiamento ma
governarlo”.
Mons. Nosiglia cita quindi il
progetto “L'Agorà sociale”, voluto dalla diocesi per indicare “la necessità di
ricostruire un'ideale piazza in cui, tramite il dialogo reciproco, si discutano
le questioni forti della costruzione della casa comune che è la Città, in
modo inclusivo e a partire dai poveri. Così, si innesta la prospettiva della
speranza, concreta e reale”.L’obiettivo è “sì rispondere in modi più
convergenti e appropriati alle emergenze, ma soprattutto costruire insieme il
futuro della nostra Città secondo strategie e modalità sinergiche e condivise”.
“La Città che abbiamo in mente –
ha detto mons. Nosiglia – si fonda sulla centralità della persona, in un
territorio e una rete di relazioni in cui ognuno è - a pieno titolo - ‘cittadino’.
Le persone, residenti o di recente immigrazione, rappresentano la prima
vera risorsa da valorizzare e su cui investire. Non si tratta solamente di un
discorso sui diritti individuali né di una prospettiva che badi a tamponare le
emergenze. Piuttosto un nuovo umanesimo che, nel rispetto del pluralismo di
fedi e culture, sappia riconoscere come risorsa non solo i dati economici ma,
appunto, le potenzialità di crescita e integrazione dei cittadini”.
Occorre dare “voce a tanti che
vivono in solitudine i loro drammi e per dignità non tendono la mano o chiedono
aiuto ai nostri Centri, parrocchie, servizi sociali, associazioni e
cooperative. Di essi non si parla sui mass media, che mettono il silenziatore
a intermittenza su di loro. Quanti "orfani della città" ci sono
attorno a noi, stranieri non solo perché immigrati, ma perché ignorati e
collocati ai margini della Città che conta! Promuoviamo un nuovo welfare
di comunità non sostitutivo del diritto e della giustizia di cui i poveri in
quanto cittadini debbono poter usufruire. Educhiamo a promuovere quei
vicinato e prossimità che creano una rete di amicizia e fraternità nel
tessuto sfilacciato dei quartieri e delle realtà locali. Valorizziamo
l'apporto degli immigrati, che va promosso come un fattore di sviluppo
positivo, senza remore e con impegno di integrazione e collaborazione”.
Durante la celebrazione, alla
preghiera dei fedeli, hanno pregato anche una famiglia di nigeriani, mentre
all’offertorio hanno portato i doni all'altare anche un gruppo di
rifugiati dell'Eritrea e del Congo.
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