di Sandro Magister
Il percorso della missione della Chiesa dal Concilio Vaticano II alla
Chiesa di papa Francesco; le ambiguità del post-concilio, con una missione
senza Cristo, ridotta a umanitarismo; l'attualità della Redemptoris Missio,
l'enciclica di Giovanni Paolo II. Il tutto raccontato da un testimone in prima
linea. L'introduzione del vaticanista Sandro Magister, all'ultima fatica del
missionario del Pime, p. Piero Gheddo.
Roma - Alla vigilia dell'ultimo conclave, il cardinale argentino che sarebbe divenuto papa aveva ammonito: "Ci sono due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa, o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé". Il dramma della Chiesa cattolica di questi ultimi decenni è tutto qui. La Chiesa missionaria, che sembrava al culmine della sua spinta espansiva all'inizio del Concilio Vaticano II, ha avuto un repentino crollo. Ed è stata largamente soppiantata da una Chiesa che si diceva e si dice più "aperta", ma talmente aperta al mondo da vederlo salvato anche senza conoscere e accogliere Cristo, e quindi anche senza annuncio del Vangelo e conversione e battesimo, in breve, senza più missione.
Padre Piero Gheddo è un testimone
straordinario di questo dramma. Missionario da sessant'anni, ne ha vissute in
prima linea tutte le fasi, che qui racconta e analizza con molte rivelazioni
inedite riprese dai suoi fogli di diario. Soprattutto sui retroscena di due
documenti capitali alla cui scrittura egli lavorò intensamente: il decreto
conciliare sulle missioni e l'enciclica con cui un quarto di secolo dopo
Giovanni Paolo II tentò di ravvivare nella Chiesa quella coscienza missionaria
che sembrava sul punto di perdersi.
Al Concilio, padre Gheddo fu
chiamato subito come perito. E presto capì che "la missione alle genti era
considerata l'ultima o la penultima ruota del carro ecclesiale". La
stesura di quello che diventò alla fine il decreto "Ad gentes" passò
attraverso sette rifacimenti successivi. Rischiò di essere cancellato del
tutto. A metà del cammino il lavoro fin lì fatto fu accantonato, con l'ordine
perentorio di ridimensionare il tutto in un breve elenco di
"proposte".
A risollevare le sorti del documento
fu la capillare azione di convincimento messa in opera dai padri conciliari più
impegnati sul campo. C'erano tra questi, ricorda padre Gheddo, dei
"missionari di foresta che solo al vederli non si poteva dire loro di
no". Ciò non toglie che "c'era in commissione un senso di ansia, in
qualcuno quasi di disperazione". Il miracolo avvenne sul finire del
Concilio. Dopo ulteriori, faticosissime riscritture, il decreto fu approvato nell'ultima
seduta pubblica con 2.394 voti favorevoli e solo 5 contrari, il più alto
livello di unanimità mai raggiunto.
Già nell'immediato dopoconcilio,
tuttavia, il sogno di una nuova Pentecoste missionaria cedette il passo a una
realtà opposta. Si riduceva l'obbligo di evangelizzare a impegno sociale. Ma il
Padre non ha mandato il Figlio sulla terra per scavare pozzi, né la Chiesa può
ridursi a un'agenzia di pronto soccorso. Per contrastare questa deriva, Paolo
VI convoca nel 1974 un sinodo sull'evangelizzazione. L'anno dopo pubblica un’esortazione
apostolica, la "Evangelii nuntiandi", per riaffermare con forza che
"anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente se il
nome, l'insegnamento, la vita e le promesse, il regno, il mistero di Gesù di
Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati".
"Ma Paolo VI non fu
ascoltato", commenta padre Gheddo. E anche il suo successore Giovanni
Paolo II, con l'enciclica "Redemptoris missio" del 1990, si scontrò
con un muro di incomprensione. Il fuoco di sbarramento entrò in azione prima
ancora che l'enciclica fosse scritta. È inutile, si obiettava, ha già detto
tutto il Concilio. Quando invece, spiega padre Gheddo, papa Karol Wojtyla
voleva proprio dire forte ciò su cui il decreto "Ad gentes" era stato
troppo timido o silenzioso.
Quando Giovanni Paolo II chiamò a
Roma padre Gheddo e gli affidò il compito di scrivere l'enciclica, per il
missionario cominciarono mesi di lavoro mozzafiato: "scrivere, pregare,
mangiare e dormire, nient'altro". Finito un capitolo, lo faceva arrivare
al papa, che alcun giorni dopo glielo rimandava con le sue annotazioni a
margine, scritte a matita o con la biro: qui aggiungi questo, spiega meglio il
concetto, cita questo passo del Vangelo. Ultimata la prima stesura, ce ne
vollero una seconda e una terza, a loro volta inviate sotto segreto a una serie
di persone, per raccoglierne le osservazioni. La segreteria di Stato coordinava
il tutto e anche metteva del suo, smussando e cancellando le espressioni che
giudicava "non adatte a un papa". Ma lo stile diretto,
"giornalistico", di padre Gheddo, che papa Wojtyla aveva voluto, in
buona misura è rimasto. La "Redemptoris missio" è l'enciclica meglio
scritta delle quattordici di quel pontificato.
Poi è venuto Benedetto XVI, anche
lui papa dalla fortissima sensibilità evangelizzatrice e anche lui in questo
largamente incompreso. Il 3 dicembre 2007, festa del missionario per eccellenza
Francesco Saverio, la congregazione per la dottrina della fede pubblica una
"Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione" che inizia
diagnosticando con molto realismo l'anemia missionaria della Chiesa attuale:
"Si dice che basta aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli
alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di operare per la
giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Inoltre, alcuni sostengono che
non si dovrebbe annunciare Cristo a chi non lo conosce, né favorire l'adesione
alla Chiesa, poiché sarebbe possibile essere salvati anche senza". Eppure
anche questo documento è parso cadere nel vuoto. "È stato quasi ignorato
dalla stampa cattolica e missionaria", scrive padre Gheddo.
Nonostante tutto, il libro termina
con annotazioni cariche di fiducia. Al crollo delle vocazioni missionarie nel
vecchio mondo corrisponde la vitalità delle giovani Chiese, che si fanno esse
stesse missionarie fuori dei propri paesi. In Africa, in Asia, l'espansione del
cattolicesimo è più vivace che mai. Ma proprio i leader di queste giovani
Chiese sono convinti che il ruolo dei missionari italiani, europei, nordamericani
non deve essere consegnato al passato. Padre Gheddo riporta le parole di un
vescovo del Camerun: "Abbiamo una fede certamente molto viva e ne
ringraziamo il Signore, ma è una fede emozionale, superficiale, non ancora
penetrata in profondità. Se non avessimo più missionari stranieri, sono
convinto che in venti o trent'anni torneremmo sotto gli alberi a fare sacrifici
agli spiriti. I missionari ci portano il respiro della Chiesa universale, che
ha una storia e una tradizione che noi non abbiamo".
Con papa Francesco la sfida
continua. In questo libro, padre Gheddo ce la racconta come mai nessuno prima
di lui ha fatto.
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