Intervista con padre Antonio Spadaro, direttore de «La Civiltà Cattolica», sul viaggio di Francesco in America Latina
«Il Papa chiede alla Chiesa di essere un agente di cambiamento, un enzima capace di mettere in rapporto le differenze. E le chiede di essere vicina al popolo». Padre Antonio Spadaro, direttore de «La Civiltà Cattolica», che sta seguendo ogni passo di Francesco in America Latina, così sintetizza, in questa intervista con Vatican Insider, il messaggio che emerge dai gesti e dalle parole di Francesco in Ecuador, Bolivia e Paraguay.
Che cosa chiede secondo lei Papa Bergoglio ai vescovi latinoamericani?
«Innanzitutto di essere uomini di preghiera, espressione di quella fede che qui viene trasmessa come il latte materno e che ha contribuito all'identità di questi popoli. Poi mi sembra che li inviti a essere pastori vicini al popolo, che curano le ferite del popolo, evitando il rigorismo che impedisce di vedere le persone nella loro concretezza perché guarda in astratto alla teoria. Solo un pastore che non sia rigorista impedisce al vescovo di trasformarsi in un funzionario. Il Papa parla del "pericolo della stola", cioè di assumere un potere e di vedere la stola come un potere che pone il pastore in una situazione di superiorità e di separazione».
Che cosa insegna il modo in cui Francesco ha incontrato i movimenti popolari?
«È un esempio di discernimento. Il Papa sa riconoscere il valore umano e spirituale di ogni realtà umana con la quale viene in contatto. Il rapporto con i movimenti popolari lo dimostra: rappresentano una realtà variegata, c'è dentro di tutto. Ci sono istanze positive ma anche eccentriche. Francesco è capace di "inspirare" i desideri migliori di tutti, e quindi di "espirarli" dando loro una forma che poi la gente riconosce come propria. Il Papa ha assorbito le tensioni dei movimenti popolari, le ha "digerite" alla luce della dottrina sociale della Chiesa e la "espirate" restituendole come respiro. Francesco ci insegna che non ci sono posti giusti e posti sbagliati, ogni uomo viene valorizzato al massimo».
È questo il modello di Chiesa «in uscita»?
«Il Papa chiede che tutta l'attività pastorale sia anche apostolica, cioè che ogni attività per la cura dei fedeli abbia una dimensione missionaria, rivolta a coloro che stanno fuori. Anche quando si bada al proprio gregge, tutto deve essere allo stesso tempo missionario. È un setting mentale, tutto deve essere aperto alla missione. Anche le feste patronali e popolari - tanto per fare un esempio - non vanno considerate come feste della comunità, ma occasione di incontro con gli altri».
Esiste una dimensione «gesuitica» di questo viaggio latinoamericano?
«Certamente. A me ha colpito particolarmente ciò che il Papa ha detto alla società civile a Quito, quando ha citato sant'Ignazio di Loyola, per dire che l'amore si dimostra più con le opere che con le parole. Questo implica due conseguenze: la concretezza e l'importanza dei processi. L'opera non è soltanto un fatto, ma un'energia, un processo che si sviluppa. Questo a mio avviso è un criterio chiaro per capire il Papa: per lui è importante iniziare dei processi, cioè accompagnare ciò che accade nel mondo, non dominare. E questo fa capire come la Chiesa debba essere presente nel mondo. Negli Esercizi spirituali di sant'Ignazio chi accompagna non è chi guida, ma chi ascolta la voce di Dio e come Dio si muove per accompagnare questi processi».
Francesco ha parlato dell'interdipendenza dei Paesi latinoamericani.
«Nessuno Stato dell'America Latina può stare in piedi da solo. Il Papa ama proporre la figura del poliedro, e per questo ha preferito visitare quei Paesi dove questo processi sono più visibili. Questi contenuti non valgono soltanto per l'America Latina, ma rappresentano dei criteri di azione universale, anche per esempio per comprendere ciò che sta vivendo l'Unione Europea».