31 dicembre 2014
30 dicembre 2014
VATICANO - Gli operatori pastorali uccisi nel 2014
Città del Vaticano – Secondo le
informazioni raccolte dall’Agenzia Fides, nell’anno 2014 sono stati uccisi nel
mondo 26 operatori pastorali, 3 in più rispetto al precedente anno 2013. Per il
sesto anno consecutivo, il numero più elevato di operatori pastorali uccisi si
registra in America. Negli ultimi dieci anni (2004-2013) sono stati uccisi nel
mondo 230 operatori pastorali, di cui 3 Vescovi.
Nel 2014 sono morti in modo
violento 17 sacerdoti, 1 religioso, 6 religiose, 1 seminarista, 1 laico. Secondo
la ripartizione continentale, in America sono stati uccisi 14 operatori
pastorali (12 sacerdoti, 1 religioso, 1 seminarista); in Africa sono stati
uccisi 7 operatori pastorali (2 sacerdoti, 5 religiose); in Asia sono stati
uccisi 2 operatori pastorali (1 sacerdote, 1 religiosa); in Oceania sono stati
uccisi 2 operatori pastorali (1 sacerdote, 1 laico); in Europa è stato ucciso 1
sacerdote.
Non possiamo tralasciare di
ricordare poi quanti sono stati uccisi non dalla mano di un malvivente ma dal virus
ebola, che sta mietendo migliaia di vittime in Africa occidentale, dove le
strutture cattoliche, e non solo sanitarie, si sono mobilitate fin dal primo
insorgere dell’epidemia. La Famiglia religiosa dei Fatebenefratelli (Ordine
ospedaliero di San Giovanni di Dio) ha perso in Liberia e Sierra Leone quattro
confratelli, una religiosa e tredici collaboratori degli ospedali di Monrovia e
Lunsar, per aver contratto il virus nel loro generoso impegno di assistenza ai
malati. “I nostri Confratelli hanno donato la loro vita per gli altri, come
Cristo, fino al punto di morire contagiati da questa epidemia” ha scritto Fra
Jesús Etayo, Priore Generale. Analoga sorte toccò alle sei missionarie italiane
delle Suore delle Poverelle di Bergamo, morte in Congo nel 1995 per aver
contratto il virus ebola pur di non lasciare la popolazione priva di assistenza
sanitaria. Per loro nel 2 013 è stato aperto il processo di beatificazione.
Come avviene ormai da tempo,
l’elenco di Fides non riguarda solo i missionari ad gentes in senso stretto, ma
tutti gli operatori pastorali morti in modo violento. Non viene usato di
proposito il termine “martiri”, se non nel suo significato etimologico di
“testimoni”, per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà
eventualmente dare su alcuni di loro, e anche per la scarsità di notizie che si
riescono a raccogliere sulla loro vita e sulle circostanze della morte.
Ancora una volta la maggior parte
degli operatori pastorali uccisi nel 2014 ha trovato la morte in seguito a
tentativi di rapina o di furto, aggrediti anche con efferatezza e ferocia,
segno del clima di degrado morale, di povertà economica e culturale, di
intolleranza in cui vivevano. In questi contesti, simili a tutte le latitudini,
la violenza e la mancanza del minimo rispetto per la vita umana, diventano
regola di vita. Nessuno di loro ha compiuto azioni o gesti eclatanti, ma ha
vissuto con perseveranza e umiltà l’impegno quotidiano di testimoniare Cristo e
il suo Vangelo in tali complesse situazioni. Qualcuno è stato ucciso dalle
stesse persone che aiutava, altri hanno aperto la porta a chi chiedeva soccorso
e sono stati aggredito, altri ancora hanno perso la vita durante una rapina,
mentre rimane incerto il movente per tante altre aggressioni e rapimenti
conclusisi tragicamente, di cui forse non si conosceranno mai le vere cause.
Nel 2014 sono stati condannati i
mandanti dell’omicidio del Vescovo di La Rioja (Argentina), Mons. Enrique
Angelelli, 38 anni dopo l’assassinio del Presule, che fu camuffato da incidente
stradale; sono stati anche condannati i mandanti e gli esecutori
dell’assassinio di Mons. Luigi Locati, Vicario apostolico di Isiolo (Kenya),
assassinato nel 2005; arrestati anche i responsabili della morte del Rettore
del Seminario di Bangalore (India), p.Thomas, ucciso nel 2013.
Desta ancora preoccupazione la
sorte di altri operatori pastorali sequestrati o scomparsi, di cui non si hanno
più notizie, come i tre sacerdoti congolesi Agostiniani dell’Assunzione,
sequestati nel nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo nell’ottobre
2012; del gesuita italiano p. Paolo Dall’Oglio, rapito in Siria nel 2013; o di
p. Alexis Prem Kumar, rapito il 2 giugno scorso ad Herat, in Afghanistan.
Il 24 maggio sono stati beatificati il missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) padre Mario Vergara, ed il catechista laico Isidoro Ngei Ko Lat, uccisi in odio alla fede in Birmania, nel 1950. “La loro eroica fedeltà a Cristo possa essere di incoraggiamento e di esempio ai missionari e specialmente ai catechisti che nelle terre di missione svolgono una preziosa e insostituibile opera apostolica” ha detto Papa Francesco.
Il 24 maggio sono stati beatificati il missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) padre Mario Vergara, ed il catechista laico Isidoro Ngei Ko Lat, uccisi in odio alla fede in Birmania, nel 1950. “La loro eroica fedeltà a Cristo possa essere di incoraggiamento e di esempio ai missionari e specialmente ai catechisti che nelle terre di missione svolgono una preziosa e insostituibile opera apostolica” ha detto Papa Francesco.
Agli elenchi provvisori stilati
annualmente dall’Agenzia Fides, deve sempre essere aggiunta la lunga lista dei
tanti, di cui forse non si avrà mai notizia o di cui non si conoscerà neppure
il nome, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano con la vita la loro
fede in Gesù Cristo.
(Fides 30/12/2014)
Links:
Il testo completo dello Speciale Fides
http://www.fides.org/ita
Il testo completo dello Speciale Fides
28 dicembre 2014
27 dicembre 2014
23 dicembre 2014
El patriarca de Jerusalén visitó Gaza
Twal: "Para muchos
niños refugiados, sería un lujo poder vivir en un pesebre"
700 cristianos han recibido permiso de Israel para ir a Belén en
Navidad
El patriarca de Jerusalén, Fouad Twal, indicó en su mensaje para la
Navidad que "para los muchos niños refugiados de hoy, seria un lujo
poder vivir en el pesebre donde nació Jesús". Twal visitó este
domingo la parroquia de la Sagrada familia de Gaza.
700 cristianos de Gaza este
año han recibido el permiso de Israel para ir a Belén y celebrar la solemnidad
de la Navidad en el lugar donde nació Jesús. Pero serán muchos menos aquellos
que realmente podrán viajar a las ciudades de Cisjordania, dadas las
dificultades cotidianas compartidas por los cristianos en Gaza tras un año
marcado por la intervención militar israelí en la Franja de Gaza que
ha causado miles de muertes.
"He encontrado nuestra
Iglesia unida" ha declarado a la Agencia Fides el Patriarca "con
nuestros fieles que viven una fuerte comunión con los cristianos ortodoxos. En
Gaza no se ve la grandeza del mundo y el poder efímero del mercado. Está sólo
la pequeñez custodiada por el Señor.
Un pequeño grupo de almas
marcadas por circunstancias difíciles y dolorosas, que ponen su esperanza en
Jesús. Y la imagen de la verdadera Navidad". Partiendo de lo que ha visto
en Gaza, S. B. Twal amplía su mirada a las pruebas experimentadas por las
poblaciones en todo el Oriente Medio: "Siempre nos ha conmovido leer en
los Evangelios que María y José no encontraron sitio en la posada, y que
el Niño Jesús nació en una cueva. Hoy en día, entre los millones de refugiados,
hay muchos niños que desearían poder dormir en una cueva como aquella en la que
nació el Salvador. Para ellos sería casi un lujo".
22 dicembre 2014
19 dicembre 2014
18 dicembre 2014
14 dicembre 2014
13 dicembre 2014
ASIA/IRAQ - Il Patriarca caldeo propone tre giorni di digiuno per chiedere che i rifugiati ritornino alle proprie case
Baghdad - Digiuno, preghiera e
penitenza nei tre giorni che precedono il Natale, e l'invito a rinunciare a
feste con musica e balli in occasione delle feste natalizie e del Capodanno:
sono questi i gesti di penitenza che il Patriarca Louis Raphael I propone a
tutti i fedeli della Chiesa caldea per invocare la liberazione di Mosul e della
Piana di Ninive e per manifestare vicinanza concreta e solidale a tutti i
profughi iracheni, costretti a abbandonare le città e i villaggi caduti sotto
il controllo dei jihadisti dello Stato Islamico (IS).
“Nel tempo di Avvento – scrive il
Primate della Chiesa caldea in un messaggio pervenuto all'Agenzia Fides – ci si
prepara al Natale con il digiuno, la preghiera, la penitenza e le opere di
carità. E soprattutto quest'anno – aggiunge il Patriarca - noi viviamo qui e
ora in attesa della sua venuta nelle nostre vite e nelle nostre case, mentre il
nostro Paese vive circostanze tragiche e dolorose”.
Per questo S. B. Louis Raphael I
Sako chiede “a tutti i figli e a tutte le figlie” della Chiesa caldea di
praticare il digiuno stretto da lunedì 22 fino alla sera del 24 dicembre, per
invocare dal Signore il dono della liberazione di Mosul e della Piana di
Ninive, così che tutti i rifugiati possano “ritornare in sicurezza alle proprie
case, al proprio lavoro e alle proprie scuole”. Nel suo messaggio, il Patriarca
Sako si dice certo che “Cristo ascolterà le nostre preghiere”, e cita le parole
di Gesù riportate nel Vangelo di Matteo: “Questa razza di demòni non si scaccia
se non con la preghiera e il digiuno” (Mt 17,21).
Inoltre il Primate della Chiesa
caldea suggerisce ai cristiani di non organizzare feste con musica e balli in
occasione del Natale e del Capodanno. Invita piuttosto tutti a sostenere
iniziative di solidarietà concreta rivolte ai fratelli che si trovano
nell'emergenza. “ho potuto toccare con mano la loro croce pesante e dolorosa”
aggiunge il Patriarca, facendo riferimento anche alla sua recente visita ai
profughi che hanno trovato rifugio nella città di Amadiya, e invita tutti ad
aiutare e confortare quelli che vivono in simili situazioni di emergenza,
invece di spendere energie e risorse nell'organizzazione di “concerti
rumorosi”.
12 dicembre 2014
Com a festa da Imaculada começa novo projecto
Angola - O que fazer com as crianças e adolescentes durante dois meses de férias? Acompanhar, propondo alguma actividade ou deixar que fiquem a mercê do que vier? O coração do pastor fica tranquilo quando as ovelhas estão a correr risco de ser atacadas pelos lobos? Estas entre outras foram as reflexões que deixaram inquieto o coração dos coordenadores dos diversos grupos juvenis, os catequistas e animadores do CPA- Centro de Pastoral Auxiliadora – Zango/ Luanda, a mais nova presença das FMA em Angola. Sendo uma presença que tem como primeiro objectivo ser casa que acolhe as famílias que chegam de diferentes lugares, onde tudo perderam devido a nova reestruturação da cidade capital, chegam ao CPA onde sentem-se acolhidos em uma grande família. Sendo assim, com o desafio de muitas seitas que fervilham ao nosso redor, depois de alguns encontros nasceu o «Projecto Vinde a Mim». Com a mesma dinâmica do oratório e que teve início justamente no dia da festa da Imaculada, com as bênçãos de Dom Bosco. Devido ao número reduzido de FMA na comunidade (somente duas), toda a realização do Projecto que tem a duração de dois meses foi confiado aos jovens, que assumiram com alegria e responsabilidade, dando o melhor de si, revelando do que são capazes quando são desafiados a assumirem uma missão. Confiamos a Dom Bosco e a Mãe Auxiliadora este primeiro Projecto Vinde a Mim. Que as bênçãos sejam extensivas a todos os que assumem este trabalho de formação – evangelização.
ASIA/LIBANO - I Vescovi siro-cattolici: mettiamo in pratica i principi della “Dichiarazione di al-Azhar”
Roma (Agenzia Fides) – I capi
delle grandi potenze e i governanti dell'Iraq devono “affrettare la liberazione
di Mosul e della Piana di Ninive” dai jihadisti dello Stato Islamico, affinchè
i profughi che sono fuggiti da quelle terre possano tornare a vivere nelle
proprie case in pace e in sicurezza. Si apre con questo appello il documento
diffuso dai Vescovi della Chiesa siro-cattolica al termine del loro Sinodo
annuale, svoltosi a Roma dall'8 al 10 dicembre, sotto la presidenza di S.B.
Ignace Youssif III, Patriarca di Antiochia dei Siri. Il testo di sintesi del
Sinodo, articolato in 9 punti, esprime attese, considerazioni e progetti dei
pastori della Chiesa cattolica di rito orientale riguardo al momento convulso
vissuto dalle popolazioni del Medio Oriente, con particolare riferimento alle
difficoltà e alle sofferenze affrontate dalle comunità cristiane locali.
I Vescovi siro-cattolici
esprimono grande soddisfazione per la dichiarazione finale della Conferenza sul
terrorismo svoltasi la scorsa settimana presso l'Università sunnita di al
Azhar, che ha riaffermato con forza la necessità di salvaguardare la convivenza
fraterna tra cristiani e musulmani nei Paesi arabi e di tutelare la loro piena
eguaglianza dal punto di vista sociale e civile.
Nel documento, pervenuto
all'Agenzia Fides, i Vescovi della Chiesa siro-cattolica chiedono di dare
applicazioni pratiche ai principi espressi dalla Dichiarazione di al-Azhar,
invitando i governi a riconsiderare in tale prospettiva le politiche
riguardanti le diverse componenti religiose ed etniche, e richiamando anche le
istituzioni educative a rivedere i curricula scolastici per depurarli da ogni
contenuto discriminatorio nei confronti delle comunità non musulmane.
Nel loro pronunciamento, tra le
altre cose, i Vescovi siro-cattolici riaffermano anche il diritto dei
palestinesi a costituire un proprio stato indipendente, e annunciano la
creazione di una commissione ad hoc incaricata di intensificare il dialogo
ecumenico con i cristiani siri ortodossi, nella prospettiva della piena
comunione. I Vescovi siro-cattolici esprimono anche il loro pieno appoggio alla
proposta – recentemente rilanciata anche dal Patriarca copto ortodosso Tawadros
II - di individuare una data per la celebrazione della Pasqua che sia condivisa
da tutte le Chiese e comunità cristiane.
11 dicembre 2014
Io sostengo da vicino
La campagna di sensibilizzazione del Centro Astalli
“Ogni giorno, al Centro Astalli, tante persone, in prevalenza giovani, si mettono in fila per un pasto caldo. I rifugiati ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma ci dicono anche che fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta provare a dire: Io ci sono. Come posso dare una mano?". Con queste parole Papa Francesco in occasione della visita alla mensa del Centro Astalli invitava ciascuno a fare di più.
“Io sostengo da vicino” è la campagna di sensibilizzazione che il Centro Astalli promuove per creare nella società italiana una cultura dell’accoglienza e della solidarietà.
L’idea di fondo della Campagna è di coinvolgere i singoli cittadini e la società civile a sostenere un rifugiato che vive in Italia nelle sue primissime necessità: un pasto caldo, un aiuto per le spese mediche, l’assistenza alle vittime di tortura, l’inserimento scolastico dei bambini rifugiati.
Un semplice paio di occhiali può fare la differenza nell’apprendimento della lingua italiana o nel successo di un percorso formativo. Un tutore per un polso o una caviglia mal messa può essere risolutivo nella riabilitazione di una vittima di tortura.
La patente di guida è un importante requisito nella ricerca del lavoro. Molti rifugiati per anni non riescono ad avere disponibilità economica e sostegno adeguato alla preparazione dell’esame in Italia. Piccoli esempi che ogni giorno al Centro Astalli rappresentano grandi ostacoli.
“Noi siamo fortunati perché viviamo in un paese in pace e libero. Ma non è stato sempre così e sarebbe un grave errore darlo per scontato. Aiutare i rifugiati, anche con poco, vuol dire fare in prima persona qualcosa di concreto per rendere il mondo un posto più giusto per tutti”.
Così P. Camillo Ripamonti (Presidente Centro Astalli) spiega il senso della campagna “Io sostengo da vicino”.
I contenuti della campagna sono accessibili dal sito del centro astalli
“Io sostengo da vicino” è promossa dal Segretariato Sociale Rai come campagna di sensiblizzazione nel periodo che va dal 15 al 21 dicembre. In quei giorni i canali rai radio, tv e on line daranno ampia comunicazione dell'iniziativa.
Tra i materiali predisposti uno spot pubblicitario realizzato grazie al contributo di Massimo Wertmuller, testimonial della campagna.
10 dicembre 2014
UNHCR: nel 2014 oltre 348.000 persone in tutto il mondo hanno attraversato il mare in cerca di asilo
Roma - L'Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) mette in guardia la comunità
internazionale sul rischio di distogliere l’attenzione dall’impegno nel salvare
vite umane. Ciò si “starebbe verificando a causa del modo confuso con cui le
nazioni costiere e intere regioni del mondo affrontano il crescente numero di
persone che intraprendono pericolose traversate via mare in cerca di asilo o di
una vita migliore”. Mentre sono in corso a Ginevra i preparativi per
l'apertura, più tardi nel corso della giornata, del Dialogo dell'Alto
Commissario per il 2014 - un forum annuale di discussione politica informale
che quest'anno sarà dedicato alla protezione in mare – l’Alto Commissario per i
Rifugiati António Guterres ha dichiarato che la priorità di alcuni governi
“sembra essere sempre di più quella di tenere lontani gli stranieri piuttosto
che di garantire il diritto di asilo”, si legge in una nota. “Questo è un
errore, e più precisamente è la reazione sbagliata in un'epoca in cui il numero
di persone in fuga dalle guerre ha raggiunto livelli record”, ha affermato
Guterres: “la sicurezza e la gestione dell'immigrazione sono preoccupazioni per
ogni paese, ma le politiche devono essere progettate in modo che le vite umane
non finiscano col diventare danni collaterali”. La natura irregolare di queste
traversate via mare rende difficile effettuare un confronto affidabile con
l’anno precedente, tuttavia i dati disponibili mostrano come il 2014 sia stato
un anno record. Secondo le stime delle autorità costiere e le informazioni
delle interdizioni confermate ed altre attività di monitoraggio, almeno 348.000
persone nel mondo hanno tentato queste traversate dall’inizio di gennaio.
Storicamente, la motivazione principale è sempre stata la ricerca di migliori
opportunità economiche, ma nel 2014 il numero di richiedenti asilo coinvolti è
aumentato. L’Europa, che confina con importanti conflitti a sud (Libia), est
(Ucraina) e sud-est (Siria/Iraq), è stata destinataria del numero più elevato
di arrivi via mare. Anche se non tutti hanno bisogno di asilo, sono più di
207.000 le persone che hanno attraversato il Mediterraneo dall'inizio di
gennaio - quasi tre volte in più rispetto al precedente picco di circa 70.000
persone nel 2011, quando la guerra civile libica era in pieno svolgimento. Nel
2014, i richiedenti asilo rappresentano la componente maggioritaria di questo
tragico flusso. Il 50% circa degli arrivi è composto infatti da persone
provenienti da paesi di origine dei rifugiati (principalmente Siria ed Eritrea).
Oltre al Mediterraneo, ci sono attualmente almeno altre tre rotte marittime
utilizzate in via prioritaria sia dai migranti che dalle persone in fuga da
conflitti o persecuzioni. Dal 1 gennaio alla fine di novembre, nella regione
del Corno d'Africa 82.680 persone hanno attraversato il Golfo di Aden e il Mar
Rosso nella rotta che dall’Etiopia e dalla Somalia permette di raggiungere lo
Yemen o successivamente l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo Persico. Nel
sud-est asiatico, si stima che siano 54.000 le persone che hanno intrapreso
queste traversate via mare nel 2014. In molti casi si tratta di persone in fuga
dal Bangladesh e dal Myanmar e intenzionate a raggiungere la Tailandia, la
Malesia o l’Indonesia. Nei Caraibi inoltre, sono circa 4.475 le persone che
hanno preso la via del mare dal 1 gennaio al 1 dicembre di quest’anno, nella
speranza di sfuggire alla povertà o in cerca di asilo. Molte persone inoltre
muoiono o cadono vittime della criminalità organizzata internazionale nel
tentativo di intraprendere questi viaggi. Sono 4.272 le vittime che sono state
segnalate quest’anno all’UNHCR in tutto il mondo. Tra queste, sono circa 3.419
i morti nel Mediterraneo – diventato il più letale dei tragitti. Si stima poi
che 450 persone siano morte nel sud-est asiatico nel tentativo di attraversare
il Golfo del Bengala. All’8 dicembre, erano circa 242 le persone morte Mar
Rosso e nel Golfo di Aden, mentre sono 71 i morti e i dispersi nei Caraibi
secondo quanto riportato all’inizio di dicembre. Le reti di tratta e di traffico
di esseri umani nel frattempo “prosperano, operando impunemente nelle aree di
instabilità o di conflitto e traendo ingenti profitti dai loro disperati
carichi umani”, sottolinea l’UNHCR. Guterres ha affermato che, concentrandosi
su elementi isolati di un problema che per sua natura è multidimensionale e
transnazionale - che spesso implica percorsi che si estendono attraverso più
confini e lungo migliaia di chilometri - i governi non si stanno dimostrando né
in grado di arginare il fenomeno né di porre fine alla tragica morte di
numerose persone lungo il percorso. “Non si può fare ricorso a misure
deterrenti per fermare una persona che è in fuga per salvarsi la vita, senza
che questo comporti un ulteriore incremento dei pericoli in cui incorre”, ha detto
Guterres: “vanno affrontate le reali ragioni che stanno alla base di questi
flussi, e ciò significa guardare al motivo per cui le persone fuggono, ciò che
impedisce loro di cercare asilo con mezzi più sicuri, e che cosa si può fare
per reprimere le reti criminali che prosperano in questo modo, proteggendo al
tempo stesso le loro vittime. Significa anche avere sistemi adeguati per far
fronte agli arrivi e per distinguere i veri rifugiati da coloro che non lo
sono”. Il Dialogo di quest'anno dell'Alto Commissario inizia oggi e continuerà
giovedì. Oltre ai governi, studiosi e organizzazioni non governative,
all'evento parteciperanno anche le organizzazioni internazionali partner
dell'UNHCR, tra cui IOM, UNODC, OHCHR e IMO.
Cristiani e musulmani: reciproca sfida
La rilevanza reciproca dei cristiani per i musulmani e viceversa. Intervista a Jean Duchesne, direttore dell’Accademia Cattolica di Francia
La società attuale è frammentata, e ancora non si può definire “in crisi”, perché – come spiega Jean Duchesne – la parola crisi implica già la capacità di prendere decisioni collettive. Piuttosto oggi viviamo in una fase di sfida reciproca: i musulmani sfidano i secolaristi, che riterrebbero la religione pura questione privata, e i cristiani che hanno dimenticato il valore della fede come dono per la collettività.
Il XXI secolo è stato definito età post-secolare, le religioni paiono occupare nuovamente uno spazio pubblico. Si trova d’accordo con questa analisi?
Incentrando la mia analisi sulla Francia direi che è ancora prematuro parlare di età post-secolare, il XXI secolo tarda a prendere forma. Da una parte troviamo chi è persuaso che la secolarizzazione sia un fenomeno irreversibile ed ineluttabile. Dall’altra chi ritiene che questa credenza venga contraddetta dalla vitalità delle religioni, soprattutto islamica.
Al momento attuale la società è profondamente frammentata, di una divisione che non è costituita da gruppi differenti, ma interiore a ciascuno, non sapendo decidere tra le molteplici appartenenze (familiare, lavorativa, ecc.).
In che modo il pensiero cristiano può interpretare questo frangente storico? Si tratta di una crisi?
Bisogna intendersi sul concetto di crisi: il vocabolo greco donde deriva significa decidere, giudicare. Attualmente non c’è una crisi perché non si prendono decisioni collettive, si attende una crisi che ci sarà qualora saremo obbligati a decidere. Viviamo un tempo di disagio dovuto all’incertezza e all’indecisione.
La maggior parte delle persone hanno percezioni variegate, causate da un dato positivo: il benessere favorito dalla situazione sociale, tecnica ed economica; si moltiplicano le sollecitazioni esterne, che impediscono l’unificazione del soggetto.
Da almeno 50 anni la Francia e l’Europa non sono più interessate da guerre combattute sui loro territori, ai giovani non è più chiesto di offrire la vita per difendere lo stato. Si acquisisce un’ampia libertà senza avere il campo per esercitarla, manca la crisi perché non c’è l’urgenza di una prova decisiva. Si ritiene che il solo modo per essere liberi sia non impegnarsi liberamente fino in fondo.
A ciò contribuisce anche una differente consapevolezza del tempo, ormai immobile: il passato è ritenuto ostacolo alla libertà, lo si utilizza solo per scopi celebrativi, senza averne coscienza; ma senza sapere donde si viene non si può comprendere verso dove si va.
Quale il contributo alla situazione di «pre-crisi» dalla crescente presenza di musulmani in Europa?
La loro presenza è una sfida. Innanzitutto per i secolaristi, che non prevedono la loro integrazione, ma l’assimilazione: l’appartenenza religiosa sarebbe solo culturale, limitata all’ambito familiare e privato, fino ad una sostanziale scomparsa identitaria, ma questa è un’illusione. L’altro estremo interpretativo è la radicalizzazione.
Si tratta di una sfida per i musulmani stessi, che non hanno mai fatto un’esperienza analoga, nella quale essere minoranza pur godendo di uguali diritti. Non essendosi mai data storicamente manca anche lo strumentario teorico per comprenderla.
Trovandoci al centro di un processo che riguarda parecchi decenni, forse secoli, è impossibile dare linee interpretative. Sappiamo solo che la situazione attuale è instabile, ma non ne conosciamo lo sviluppo.
Anche in Francia, dove predominava l’attenzione alla laicità, a partire dalla «Convenzione cittadina dei musulmani di Francia» del giugno 2014 lo scopo ora è la convivenza; pur avendo chiaro l’obiettivo rimangono da cercare i mezzi per conseguirlo.
Anche in Francia, dove predominava l’attenzione alla laicità, a partire dalla «Convenzione cittadina dei musulmani di Francia» del giugno 2014 lo scopo ora è la convivenza; pur avendo chiaro l’obiettivo rimangono da cercare i mezzi per conseguirlo.
In quale modo l’incontro tra musulmani e cristiani può servire reciprocamente circa le modalità di vivere la vita religiosa e il rapporto con la società?
I cristiani hanno da imparare riguardo l’individualizzazione della fede, che li ha interessati nell’ultimo secolo: la fede è percepita dal singolo come una scelta, non come un dono ricevuto con la vita, dalla famiglia e innanzitutto da Dio. Al contrario l’Islam conserva la consapevolezza diffusa, e non solo a livello di speculazione teologica, del fatto che la fede sia un dato, un dono cui la decisione consegue come risposta.
Un altro aspetto riguarda la traduzione nell’ambito sociale e politico della distinzione fra spirituale e temporale: parte dei cattolici ha ancora nostalgia della civiltà cristiana, senza comprendere che la società secolarizzata è culturalmente segnata dal Cristianesimo. Infatti, si può comprendere la secolarizzazione solo a partire dalla nozione di secolo, sviluppata nell’occidente latino. Il cristiano, in virtù della differenza tra gli ordini (spirituale e temporale) dovrebbe saper dare valore a ciascuno di essi, senza ritenerli incompatibili.
A proposito dell’Islam è difficile dire, perché la risposta non può essere data da un osservatore esterno. Ragionando per analogia pensiamo al tema della fedeltà al proprio credo nel confronto con una situazione del tutto inedita. Per esempio con ciò che avvenne in Francia nel 1892: Leone XIII, proprio per difendere la distinzione degli ordini, chiede ai francesi di «riallinearsi» alla Repubblica. Ribadiamolo, si tratta di un’analogia, per cui nella tradizione cristiana si può fare riferimento alla distinzione per giungere all’accettazione della pluralità. I musulmani potranno fare riferimento a categorie teologiche che caratterizzano la loro tradizione.
9 dicembre 2014
AMERICA/MESSICO - Dopo 14 anni, ordinati 9 diaconi permanenti indigeni
San Cristobal de Las Casas – Nove
membri della comunità indigena degli tzeltales sono stati ordinati diaconi
permanenti il 2 dicembre nella comunità di Guadalupe Paxilhá, comune di Chilo.
La notizia è stata data alla comunità diocesana il 7 dicembre da Sua Ecc. Mons.
Felipe Arizmendi Esquivel, Vescovo di San Cristóbal de Las Casas (Chiapas -
Messico). La celebrazione è stata presieduta dallo stesso Mons. Arizmendi
Esquivel e concelebrata dal Vescovo Coadiutore, Sua Ecc. Mons. Enrique Díaz Díaz.
“La celebrazione è stata molto bella e ci ha riempito di molta speranza, perché
il poter di nuovo celebrare l'ordinazione di diaconi permanenti è una
benedizione per la diocesi" ha detto Mons. Arizmendi. Dopo la messa ha
spiegato: "Dopo 14 anni questa è la prima volta che ordiniamo diaconi
permanenti, con tutti i permessi della Santa Sede, e con questa fiducia
seguiranno altre ordinazioni, non di massa, ma esaminando candidato per
candidato".
6 dicembre 2014
Una mirada para devolver
Es significativo observar que de los viajes internacionales realizados por el Papa Francisco cuatro tuvieron lugar en territorios de mayoría islámica: al Reino de Jordania, al Estado de Palestina, a Albania y ahora a Turquía. «No soy un turista, soy un peregrino», dijo el Pontífice al hablar de la visita a la Mezquita Azul donde se detuvo a rezar durante algunos minutos con el rostro dirigido hacia la sacra ciudad de La Meca.
En un momento particular para toda la región del Cercano y Medio Oriente, el Papa reafirma su vocación de dialogar con los musulmanes. Creo que no me equivoco si afirmo que desde un punto de vista histórico Francisco es el Papa que más gestos ha tenido hacia el islam, gestos que llegan en un momento en que el mundo debe avanzar hacia un diálogo más activo y que se traduzca en acciones concretas de cooperación mutua.
Francisco dijo en más de una ocasión que no podemos resignarnos ante el hecho de que no haya cristianos en Oriente, y ciertamente también nosotros musulmanes no debemos resignarnos ante el hecho de que no haya cristianos en Oriente, porque ellos son parte de nuestra historia común y porque, entre altos y bajos en las relaciones, convivimos juntos desde hace más de catorce siglos. El Corán (5, 82) dice: «Encontrarás que los más cercanos a los creyentes son los que dicen “somos cristianos”» . El deber de las autoridades islámicas es, sin lugar a dudas, garantizar la libertad religiosa de las minorías que desean vivir en paz y en armonía: como dice el Corán (2, 256), «no cabe coacción en religión».
Muchos países del mundo islámico están atravesando situaciones de violencia. Cierto, es necesario afrontar las consecuencias de tales situaciones, pero es necesario también pensar que muchas de las realidades existentes son el resultado de la equivocada intervención de potencias ajenas a las regiones devastadas por los conflictos, así como de la falta de visión de algunos países de la región.
Francisco se dirigió, además, a los líderes musulmanes pidiéndoles más firmeza en la condena al terrorismo y habló también de islamofobia y de cristianofobia. En la Mezqutia Azul para rezar miraba en la misma dirección hacia la cual un cuarto de la población mundial dirige la mirada cinco veces al día.
Mirar hacia La Meca quiere decir mirar a los musulmanes directamente a los ojos. Estoy seguro de que la mayoría del pueblo islam es capaz de devolver esta mirada transformada en diálogo y fraternidad. Dice el Corán (3, 64): «¡Gente del Libro! Convengamos en una fórmula aceptable a nosotros y a vosotros, según la cual no serviremos sino a Dios» y «no tomaremos a nadie de entre nosotros como Señor».
Omar Abboud
5 dicembre 2014
AFRICA/EGITTO - Conferenza di al Azhar: chi perseguita i cristiani tradisce l'islam
Il Cairo - “Assalire i cristiani
e i credenti di altre religioni per falsa religiosità rappresenta un tradimento
degli autentici insegnamenti dell'islam”. Così si legge nel documento di
sintesi pubblicato a conclusione della Conferenza su estremismo e terrorismo,
organizzata il 3 e 4 dicembre dall'Università di al-Azhar. Al convegno
internazionale, organizzato presso l'Università cairota – considerata il più
importante centro teologico dell'islam sunnita – per riflettere sulla
controversa questione del rapporto tra mondo islamico ed estremismo a tinte
islamiste, hanno preso parte 700 studiosi e rappresentanti di istituzioni
politiche, sociali e religiose – compresi alcuni leader di comunità cristiane
d'Oriente - provenienti da 120 Paesi (vedi Fides 3/12/2014 e 4/12/2014).
Nel testo finale, articolato in 10 punti, sono molteplici i riferimenti
specifici ai cristiani del Medio Oriente e alle sofferenze a loro inflitte dai
gruppi di marca jihadista. Cristiani e musulmani – sottolinea il testo al punto
3 - hanno vissuto in armonia nel Medio Oriente per molti secoli, e
continueranno a farlo. Il documento conclusivo della Conferenza condanna come
criminale ogni azione tesa a costringere all'esodo forzato i cristiani che
vivono nelle aree controllate da gruppi di militanti islamisti. “Noi - si legge
inoltre nel testo, pervenuto all'Agenzia Fides - incoraggiamo i cristiani a
rimanere radicati nelle loro terre d'origine, e a resistere a questa ondata di
terrorismo che tutti noi stiamo soffrendo”.
Nel documento i gruppi jihadisti,
come lo Stato Islamico (IS) e al Nusra, vengono condannati senza appello, come
realtà “che non hanno nulla a che fare con l'islam”. “Terrorizzare chi è
inerme, uccidere l'innocente, assaltare le proprietà e i luoghi sacri - si
legge nel testo - sono crimini contro l'umanità che l'islam condanna senza
eccezioni”. Il Grande Imam di al Azhar, Ahmed al Tayyeb, che aveva tenuto
l'intervento inaugurale della conferenza – subito seguito da quello del
Patriarca copto ortodosso Tawadros II - ha denunciato anche manovre concepite
in Occidente che “mirano a giocare con le tensioni settarie e etniche” per
destabilizzare l'area mediorientale.
Roma città aperta all’accoglienza
Ai piedi del Campidoglio una fiaccolata per dire no al razzismo e alla
violenza. Padre Ripamonti del Centro Astalli: «Le nostre periferie luogo
d’incontro e dialogo». Zeinab, ex rifugiata: «Questa città mi ha salvato la
vita».
No al razzismo, no alla violenza,
si all’accoglienza. Con una fiaccolata che ha illuminato piazza del
Campidoglio, Roma, giovedì sera, ha voluto riaffermare il suo ruolo di città
aperta. In tanti hanno aderito all’evento organizzato dai sindacati Cgil, Cisl
e Uil e dalle associazioni che lavorano a fianco dei migranti come le Acli, il
Centro Astalli, la Comunità di Sant’Egidio, il Forum del Terzo settore, Libera,
la Fondazione internazionale Don Luigi di Liegro e il Social Pride. Tutti uniti
in un gesto di pace e solidarietà, spinti in piazza dopo i gravi fatti delle
scorse settimane, che hanno visto protagonisti alcuni migranti del centro di
accoglienza per rifugiati «Un sorriso» e i residenti del quartiere romano di
Tor Sapienza.
«Le nostre periferie devono essere
luogo di incontro e dialogo – afferma padre Camillo Ripamonti, presidente del
Centro Astalli del Servizio gesuiti per i rifugiati – questo è il futuro della
nostra città. L’Italia e soprattutto Roma non sono razziste. La verità è che
non si conoscono le realtà dei rifugiati e degli immigrati e solo dalla
conoscenza e dall’incontro può nascere qualcosa di positivo per tutti.
Periodicamente emergono queste situazioni che assumono il carattere
dell’emergenza, mentre bisognerebbe progettare, programmare e andare incontro
alle necessità dei territori». Il tema dell’abbandono delle periferie cammina
al passo con la realtà dei centri per i migranti e con il problema
dell’inclusione sociale: «Questa è una fiaccolata utile per rimettere al centro
dell’agenda politica il tema delle periferie – ammette Claudio di Berardino,
segretario della Cgil di Roma e Lazio -, periferie intese come possibilità
dello sviluppo dell’intera città, quindi come recupero e riqualificazione dei
servizi. Bisogna ragionare in termini di politica inclusiva, rivedendo con
legge regionale il piano regolatore sociale di Roma».
La fiaccolata è iniziata alla
base della scalinata principale che porta in piazza del Campidoglio. Un corteo
illuminato e silenzioso è arrivato fin sotto la statua di Marco Aurelio. Qui
gli organizzatori hanno preso la parola, ma solo dopo aver sentito la
testimonianza di Amar, giovane rifugiato del centro di accoglienza di Tor
Sapienza. Leggendo una lettera in un italiano stentato ma comprensibile, Amar
ha ricordato che tutti loro, rifugiati, sono esseri umani. Che sono scappati
dai loro paesi in guerra solo perché in cerca di una vita migliore. Che non
vogliono violenza ma solo essere integrati. Un po’ come ha fatto Zeinab Diolal,
somala, in Italia da 25 anni: «Roma mi ha salvato la vita. Io sono scappata
dalla guerra, se rimanevo o morivo o uccidevo. Conosco bene il disagio delle
periferie: lavoro come infermiera a Tor Pignattara. Si tratta solo di
conoscenza, come se Roma non fosse abituata ad avere cittadini diversi dagli
italiani».
«Roma è una bellissima città,
accogliente e inclusiva – ha deto Rita Cutini, assessore alle Politiche sociali
di Roma Capitale -; qui ne vediamo un volto importante, che difende le parole
come integrazione, inclusione, solidarietà, indispensabili per far vivere la
città in modo tranquillo forte e coraggioso». Le associazioni partecipanti sono
state unite da un unico comune denominatore: «Ritrovare la centralità e la
dignità della persona umana – ha detto Lidia Borzì, presidente Acli di Roma e
provincia – con la voglia di far emergere l’anima sociale di Roma che
sull’accoglienza ha una storia, ed oggi un esempio luminoso in Papa Francesco».
Non solo a fianco dei migranti, ma in piazza si stava anche per contrastare chi
vuole seminare odio: «Roma non è razzista – afferma Gianni Palumbo, portavoce
del Forum del Terzo settore del Lazio – lo è chi lavora nel torbido per
sollevare una volontà, per trasformare in razzista le difficoltà delle
periferie da troppo tempo abbandonate, questo è il problema».
Inevitabile è stato per tutti il
riferimento alla recente inchiesta «Mondo di mezzo», con la quale è stata
scoperta un’associazione a delinquere di stampo mafioso a Roma, con politici e
manager coinvolti in affari illeciti tra cui la gestione dei centri di
accoglienza per i rifugiati e i campi rom. «Non sapevamo che sui rom e sui
migranti si guadagnava di più rispetto al traffico di droga – ha affermato
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, riferendosi a quanto
emerso da alcune intercettazioni -. Nella politica romana oggi c’è della
criminalità organizzata bipartisan e questo mina la democrazia della città. È
necessario ricostruire un dialogo sociale e culturale». Una realtà possibile:
«Roma ha una vocazione universale – dice Daniela Pompei, responsabile del
servizio immigrazione di Sant’Egidio – le periferie della città sono costituite
da romani di adozione, calabresi, abruzzesi, che oggi potrebbero essere romeni,
filippini. Cittadini romani a pieno titolo, cittadini di questa bellissima
città».
3 dicembre 2014
Un éxodo de 282 millones
- MSF presenta su memoria anual con el foco puesto en las grandes diásporas actuales
- Hay 33,3 millones de desplazados, 16,7 de refugiados y 232 de inmigrantes
- Se trata del récord histórico de movimiento de población, superando a la II Guerra Mundial
- La vivienda más construida en lo que va de año es el plástico de Acnur
FOTO: ALBERTO ROJAS / VÍDEO: AGUS MORALES / ANNA SURINYACH / MÉDICOS SIN FRONTERAS
Aunque no hace referencia a un punto concreto del planeta, la 'ciudad refugio', suma de todos los campos de refugiados del mundo, es más grande que Tokio (36 millones de personas), que Shanghái (14) o que Nueva York (ocho). Con más de 50 millones de almas, está compuesta por cientos de agujeros negros repartidos por todo el planeta, cada vez más grandes y numerosos, que van absorbiendo a todo aquel que tiene que dejar su tierra. A ellos se suma una enorme diáspora de 232 millones de personas en continuo movimiento para buscar una vida mejor. En total, 282 millones buscando un lugar mejor.
El espacio de estas personas se restringe, si tiene suerte, a dos o tres metros cuadrados a compartir con su familia, más o menos resguardado de la lluvia y el viento con una estructura de palos y plásticos. En cambio, si no tiene fortuna, vivirá bajo un puente, en una rotonda o bajo un árbol. Es una forma de vida creciente en un planeta donde, por primera vez, la ONU ha decretado cinco grandes emergencias que, lejos de solucionarse, empeorarán en el próximo año y provocarán aún más movimientos de población. En la actualidad existen 33,3 millones de desplazados internos, 16,7 de refugiados y 232 de inmigrantes, lo que supone un récord histórico alcanzado en los años de la Segunda Guerra Mundial. Si se suma toda esta diáspora forma una cifra sólo superada por la población de China, India y Estados Unidos.
"Esos números, que son una barbaridad, son los oficiales pero no son reales, porque no incluyen a inmigrantes que, por ejemplo, se ahogan en el Mediterráneo o los que no se registran en ningún campo", dice José Antonio Bastos, presidente de Médicos Sin Fronteras.
Esta organización médico humanitaria presentó ayer su balance anual, marcado por conflictos más o menos visibles, como Irak y Siria (que esta semana ha pasado de los 200.000 muertos), y otros más olvidados como República Centroafricana o Sudán del Sur. También habla de otro tipo de guerra, la que se libra en África Occidental contra el virus del ébola, cuya situación "sigue siendo muy preocupante y fuera de control", en palabras de José Antonio Bastos, presidente de MSF. El problema es que ni estos conflictos están en vías de solución ni quedan demasiados fondos para atender a un número de víctimas que no se detiene: son los intocables del mundo actual, un limbo superpoblado en zonas oscuras del planeta.
La lona aislante de Acnur, una gran tela de color plata, se ha convertido en la tipología de vivienda más construida en el último año, con más de 50 millones de nuevos usuarios más o menos estables. Los víveres que reparte el Programa Mundial de Alimentos en todos estos campos, algunos pequeños, otros enormes como megaurbes, representa una de las dietas más consumidas por el ser humano en su historia, y está basada en cinco productos: aceite, harina, legumbres, azucar y sal. Si todo el pan que se produce cada día para alimentar solo el campo de refugiados sirios en Zaatari (Jordania) se colocara en vertical, daría una altura superior al Empire State Building.
Como cada vez hay más bocas que alimentar y el dinero decrece por la crisis y la falta de compromiso de los países donantes, esta misma semana el Programa Mundial de Alimentos ha alertado de queva a tener que dejar de ofrecer sus bonos de comida a 1,7 millones de sirios en Jordania, Líbano, Turquía, Irak y Egipto por falta de dinero en pleno invierno. Las consecuencias de esta decisión, según Bastos, "pueden ser catastróficas y provocar nuevas crisis".
Naciones Unidas anunció este verano que de dos raciones diarias de alimento ofrecidas en el campo para refugiados somalíes de Dadaab (el mayor del mundo, equivalente a la tercera ciudad de Kenia en población, con 630.000 almas) se iba a pasar a sólo una.
Antonio Salort-Pons, responsable del PMA en España y coordinador en varias emergencias asegura que su programa "está más activo que nunca, con un trabajo contrarreloj en la compra de alimentos para personas en riesgo, montar cocinas y cooperativas, ofrecer servicios aéreos para garantizar el acceso de las ONG y garantizar el almacenaje de alimentos para cuando sean necesarios. En el mundo existen seis grandes silos de comida para usar en casos de extrema necesidad".
Estos éxodos, cada vez más numerosos por los conflictos, las hambrunas o el fanatismo religioso, sufren también más trabas geográficas que nunca: existen numerosos muros que impiden el paso masivo de inmigrantes: Sáhara Occidental-Marruecos, Estados Unidos-México, frontera de Ceuta y Melilla, Corea del Norte-Corea del Sur, Israel-Cisjordania, comunidad católica-protestante en Belfast, Kuwait-Irak o India-Pakistán.
La via diritta all’incontro
Andrea Riccardi
Papa Francesco ha portato nel
clima degli incontri ecumenici il suo carisma personale. Non si tratta solo del
suo carattere e della sua storia, ma di qualcosa di più. Lo s’è visto nella
visita a Istanbul e nel rapporto con il patriarca Bartolomeo. Gli ha detto con
franchezza nella chiesa del Fanar: «Incontrarci, guardare il volto l’uno
dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono
dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena
comunione...». Ciò precede e accompagna il dialogo teologico. Ma soprattutto
salva il dialogo teologico dalle derive ideologiche, dalla freddezza
diplomatica e dalle logiche politiche. Introduce un senso di fretta. Papa
Francesco non persegue una diplomazia ecumenica, ma rapporti veri di comunione.
Nelle giornate di Istanbul ha immesso qualcosa di più nei rapporti ecumenici:
una svolta umana dal profondo riflesso ecclesiale. Francesco ha fatto entrare
nell’incontro ecumenico anche le voci del mondo e del "popolo". Ha
affermato che le Chiese debbono ascoltare i poveri, le vittime della guerra, i
giovani che chiedono – in modi e linguaggi diversi – di essere veri discepoli
del Vangelo, quindi di essere uniti.
Il discorso di Francesco al Fanar aveva dei toni analoghi alle parole del patriarca ecumenico Atenagora, pronunciate tanti anni fa. Atenagora affermava che l’unità e l’autenticità cristiana delle Chiese non sono esigenze di laboratori teologici o di ambienti ecclesiastici, ma una domanda dei popoli e delle giovani generazioni. Il Papa ha aggiunto che i giovani «ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione»...
E ciò, ha aggiunto Francesco,
«non perché essi ignorino il significato delle differenze che ancora ci
separano, ma perché sanno vedere oltre, sono capaci di cogliere l’essenziale
che già ci unisce». È stata impressionante la sintonia del Papa con il
Patriarca ecumenico. Quando i primati delle Chiese, nonostante la storia e le
tradizioni diverse, camminano insieme da fratelli, matura in loro qualcosa di
profondo. È quanto aveva proposto Atenagora a Paolo VI: camminare come fratelli
dopo l’abbraccio di Gerusalemme nel 1964. Bartolomeo ha avuto in proposito
parole vere e impegnative: «Non possiamo permetterci il lusso per agire da
soli. Gli odierni persecutori dei cristiani non chiedono a quale Chiesa
appartengono le loro vittime. L’unità, per la quale ci diamo molto da fare, si
attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio. Tendiamo dunque
la mano all’uomo contemporaneo...».
La Chiesa non vive per se stessa,
ma per il servizio al Vangelo e per l’uomo e la donna contemporanei. Per questo
Bartolomeo, successore di fedeli custodi della tradizione cristiana e orientale
e lui stesso uomo della tradizione, ha detto: «A che cosa serve la nostra fedeltà
al passato, se questo non significa nulla per il futuro?». Sì, l’incontro di
Costantinopoli – come i greci chiamano la città sul Bosforo – non è stato uno
scambio di cortesie ecclesiastiche, ma un passo in profondità nell’amicizia tra
Chiese, in "uscita" per le vie della contemporaneità. Nella chiesa di
San Giorgio al Fanar era presente il mondo con le voci dei giovani, dei colpiti
dalla guerra, dei poveri, del mondo. Mi sembra che rientri nell’ecumenismo lo
spessore umano della storia e dell’incontro tra uomini.
Un’espressione di questo fatto è
l’amicizia personale tra il Patriarca e il Papa, che sembra riscaldare
vicendevolmente i loro cuori e le loro parole. Bartolomeo ha avuto verso il
Papa non solo parole di stima vera ma anche affettuose. C’è, poi, un evento,
piccolo, avvenuto ai margini del viaggio papale e fuori dai riflettori, tanto
che quasi nessuno lo ha notato. Solo qualche agenzia turca ne ha dato notizia.
Piccolo, ma non secondario alla luce della lezione di umanità dell’ecumenismo,
dataci dalle giornate di Istanbul. Merita attenzione. Prima di andare all’aeroporto
per partire per Roma, papa Francesco ha inserito una visita in un ospedale,
quello armeno di Istanbul.
È andato a trovare il patriarca armeno di Istanbul, Mesrob II, non ancora sessantenne, gravemente malato, incapace di comunicare, ricoverato nell’ospedale della sua Chiesa e assistito amorevolmente dalla madre oltre che dai suoi collaboratori. Certo non è stato possibile alcuno scambio di parole con il patriarca, ma solo una preghiera con un abbraccio. Eppure è un evento significativo: un omaggio semplice e profondo alla Chiesa armena, che ha una storia non facile e che, nel 2015, ricorderà il centenario dei massacri degli armeni e dei cristiani nell’impero ottomano, durante la prima guerra mondiale. Incontrare un patriarca sofferente esprime un abbraccio a un’intera comunità.
È andato a trovare il patriarca armeno di Istanbul, Mesrob II, non ancora sessantenne, gravemente malato, incapace di comunicare, ricoverato nell’ospedale della sua Chiesa e assistito amorevolmente dalla madre oltre che dai suoi collaboratori. Certo non è stato possibile alcuno scambio di parole con il patriarca, ma solo una preghiera con un abbraccio. Eppure è un evento significativo: un omaggio semplice e profondo alla Chiesa armena, che ha una storia non facile e che, nel 2015, ricorderà il centenario dei massacri degli armeni e dei cristiani nell’impero ottomano, durante la prima guerra mondiale. Incontrare un patriarca sofferente esprime un abbraccio a un’intera comunità.
Per l’ecumenismo di papa
Francesco non contano il potere ecclesiastico o il ruolo delle persone, ma
«guardare il volto l’uno dell’altro». Anche questo episodio "minore",
diventa illuminante rispetto al cammino che papa Francesco ha imboccato, perché
l’amore rientri nei rapporti tra i cristiani, dopo che si era smarrito nei
secoli passati e si è freddato in una consuetudine, pur importante, ma non
pressata dall’urgenza dell’unità. Le alte parole del Papa al Fanar hanno
trovato un’immediata realizzazione.
S. Francesco Saverio
Il 3 dicembre la Chiesa celebra la memoria di S. Francesco Saverio Apostolo ed evangelizzatore delle Indie Orientali e del Giappone.
Egli fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV, congiuntamente a S. Ignazio di Loyola, S. Teresa d'Avila, S. Isidoro l'agricoltore e S. Filippo Neri.
Condivide con S. Teresa del Bambin Gesù il patronato delle missioni.
La regione spagnola della Navarra lo elesse suo patrono nel 1621; titolo che dal 1657 condivide con S. Firmino. Nel 1985, il Parlamento della Navarra lo qualificò quale “ejemplo señero de inquietud humana e intelectual, de talante entregado y aventurero, del hombre que no desdeñó dificultades ni esfuerzos para recorrer las zonas más alejadas de la tierra. San Francisco Javier es el prototipo de navarro universal abierto a las culturas y a los pueblos del mundo entero, recordado y admirado todavía hoy, por comunidades de gran número de países en todos los continentes”.
Augustinus
San Francesco Saverio (Francisco de Jaso Azpilcueta), Sacerdote
3 dicembre – Memoria
Xavier, Spagna, 1506 - Isola di Sancian, Cina, 3 dicembre 1552
Studente a Parigi conobbe sant'Ignazio di Loyola e fece parte del nucleo di fondazione della Compagnia di Gesù. E' il più grande missionario dell'epoca moderna. Portò il Vangelo a contatto con le grandi culture orientali, adattandolo con sapiente senso apostolico all'indole delle varie popolazioni. Nei suoi viaggi missionari toccò l'India, il Giappone, e morì mentre si accingeva a diffondere il messaggio di Cristo nell'immenso continente cinese.
Patronato: Giappone, India, Pakistan, Missioni, Missionari, Marinai
Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche.
Martirologio tradizionale (3 dicembre): San Francesco Saverio, Sacerdote della Compagnia di Gesù e Confessore, Apostolo delle Indie, celeste Patrono della Congregazione e dell'opera della Propagazione della Fede e di tutte le Missioni; il quale si riposò in pace nel giorno precedente.
(2 dicembre): In Sanciano, isola della Cina, il natale di san Francesco Saverio, Sacerdote della Compagnia di Gesù e Confessore, Apostolo delle Indie, illustre per la conversione degli infedeli, per grazie e miracoli; il quale, pieno di meriti e di fatiche, si riposò nel Signore. Lo stesso dal Sommo Pontefice Pio X fu eletto e costituito celeste Protettore della Congregazione e dell'opera della Propagazione della Fede; e dal Papa Pio XI venne dato e confermato speciale Patrono di tutte le Missioni. La sua festa, per decreto del Papa Alessandro VII, si celebra il giorno seguente.
La prima memoria solenne del mese di dicembre, il Calendario della Chiesa la dedica a San Francesco Saverio, il più ardito missionario di tutti i tempi, Patrono delle Missioni, insieme con Santa Teresina di Lisieux.
Francesco aveva dieci anni quando il Cardinal Cisneros ordinò la distruzione, per ragioni politiche, del castello di Xavier, nella Navarra, dove era nato nel 1506. L'umiliazione della nobile famiglia feudale non scalfì però il giovane che avrebbe dato ben altra gloria al nome di Xavier, italianizzato in "Saverio", e diventato, da nome famigliare, nome di battesimo, assai diffuso in tutti i paesi cattolici.
Studente a Parigi, Francesco Saverio aveva conosciuto un altro giovane spagnolo, Ignazio di Loyola. Con lui aveva formato la prima, piccola pattuglia della cosiddetta Compagnia di Gesù, destinata alla più ardimentosa guerriglia per la conquista delle anime.
Poi, Breviario sotto il braccio e Rosario al collo, Francesco era sceso a Venezia, dove era stato ordinato sacerdote. Sfumata, a causa di una guerra, la speranza di un passaggio per la Terrasanta, si era fermato a Roma, sempre a fianco d'Ignazio, pronto a qualsiasi impresa.
Il generale della Compagnia lo scelse tra i missionari per le colonie portoghesi in India. Francesco rispose con le parole degli Apostoli: "Eccomi. Andiamo". S'imbarcò su una nave mercantile, sprovvisto di tutto, fuor del Breviario e del Rosario. Nei due mesi della traversata soffrì continuamente il mal di mare. Lo curò, curando i malati di bordo.
La sua prima terra di missione fu Goa, possedimento portoghese nel quale il Cristianesimo era già stato importato, ma non predicato e insediato nelle anime. Certo, non poteva essere molto amato, quel Rosario che serviva a contare le bastonate, nelle punizioni corporali degli Indiani!
Francesco Saverio portò invece il suo Rosario nei tuguri dei poveri, al capezzale dei malati, negli antri dei lebbrosi. Girava nei quartieri più squallidi, sonando un campanello, per raccogliere intorno a sé torme di ragazzi laceri e affamati. Lo chiamavano "il grande Padre" e della sua opera si mostravano soddisfatti, tanto il Vescovo quanto il Governatore.
Ma il suo cuore andava più lontano, verso coloro ai quali il messaggio di Cristo non era giunto, neppure con le nerbate. Appena poteva, s'imbarcava per andare tra i pescatori di perle sparsi nelle isolette, e poi più lontano, nelle Molucche, tra infedeli ancora allo stato semiselvaggio.
Temendo per la sua vita, spesso gli venivano negate le imbarcazioni. "Andrò a nuoto" diceva Francesco Saverio. Cercavano di frenarlo, con la paura degli animali velenosi. Francesco sorrideva: "La fiducia in Dio - diceva - è un buon controveleno".
Lo attirava un'isola lontana, il Giappone. Dopo mille vicende, riuscì a giungervi, ignaro dei costumi, ignaro della lingua, spesso vittima di curiosi o pericolosi equivoci. Ma non era equivoca la sua carità, che gli procurò un piccolissimo gruppo di convertiti, da lui chiamati "la delizia della mia anima".
I Giapponesi però si domandavano perché il Cristianesimo, ch'egli predicava, non veniva dalla Cina, dove nascevano le cose più belle. E allora Francesco Saverio pensò di entrare in Cina. Riprese il mare, giunse in Malacca, a Singapore; arrivò a cento miglia da Canton.
Sulla sponda di un'isola, aspettava di fare quest'ultima traversata, quando si ammalò. Solo con un giovane cinese, che gli faceva da guida, implorava come il lebbroso evangelico: "Gesù, figlio di David, abbiate pietà di me!". E Gesù ebbe pietà di lui, facendogli fare un'altra traversata. Il missionario più ardente e più ardito di tutti i tempi morì all'alba, il 3 dicembre del 1552, a soli 46 anni.
Sulla sponda di un'isola, aspettava di fare quest'ultima traversata, quando si ammalò. Solo con un giovane cinese, che gli faceva da guida, implorava come il lebbroso evangelico: "Gesù, figlio di David, abbiate pietà di me!". E Gesù ebbe pietà di lui, facendogli fare un'altra traversata. Il missionario più ardente e più ardito di tutti i tempi morì all'alba, il 3 dicembre del 1552, a soli 46 anni.
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2 dicembre 2014
Comunidad indígena shipibo en Lima será desplazada
Maija Susarina*
La comunidad y asentamiento Cantagallo fue fundado en el 2000 por inmigrantes indígenas shipibo del departamento amazónico de Ucayali y actualmente tiene unas 200 familias. Sus habitantes viven en una zona precaria vecina al distrito del Rímac, uno de los más peligrosos de Lima, la capital. Las viviendas son en su mayoría sencillas construcciones de madera que dejan pasar el frío y la humedad que pueden llevar a graves problemas de salud. Debido a la falta de instalaciones sanitarias, el agua corre libremente por las colinas de tierra, atrayendo a las ratas y provocando accidentes. La violencia doméstica en Cantagallo es común. Las mujeres y los niños, que constituyen la mayoría de los habitantes, son los más afectados y, de acuerdo con numerosas mujeres de la comunidad, la policía no aparece cuando un delito es reportado en este lugar.
La situación suena bastante mal pero hay un punto crucial que pronto cambiará las vidas de los indígenas shipibo de Cantagallo para bien. O para mal.
Hace algunos años fueron concluidos los planes para la obra Vía Parque Rímac y en el 2009 se iniciaron los trabajos de construcción de un parque para turistas y uso recreacional que incluiría la zona de Cantagallo.
Actualmente, los alrededores de Cantagallo son una gran área de construcción y cada día las excavadoras se acercan más a las viviendas. Sin embargo, recién el 22 de setiembre pasado quedó claro que la comunidad será trasladada. Durante su visita a Cantagallo ese día, la alcaldesa Susana Villarán anunció que la reubicación será a Campoy, en el distrito de San Juan de Lurigancho, que está ubicado lejos del centro de la ciudad, podría ser importante para las mujeres shipibo en lo que se refiere a la venta de sus artesanías.
Peligros y oportunidades de la reubicación
El traslado de una comunidad conformada principalmente por mujeres y niños a un distrito más seguro podría llevar a un cambio positivo en la calidad de vida de los migrantes. En Cantagallo, con frecuencia los delincuentes llegan por las noches para violar a las mujeres y robar las pertenencias de los habitantes sin temor a que la policía llegue a esta parte de la ciudad. Esto constituye un riesgo importante en las vidas de las mujeres. En San Juan de Lurigancho, los shipibo no tendrán que temer por la inseguridad, pero vivir allí significará horas de viaje al centro de la ciudad y gastar más en transporte.
Con un manejo inteligente e innovador, el nuevo asentamiento puede incluso ser convertido en una atracción turística que muestre la cultura y las artesanías amazónicas, enclavado en un estilo de vida urbano y moderno. Para convertir un pequeño asentamiento en un punto de interés para turistas y locales, el lugar debe ser seguro. Los planes y talleres para promover la popularidad de Cantagallo a la larga fracasaron debido al peligro existente en los distritos que rodean el asentamiento.
Viviendas limpias y un sistema sanitario que funcione mejorarían adicionalmente las condiciones de vida, lo cual permitirá luchar contra la propagación de enfermedades y fortalecer la salud de las personas, al igual que sus puestos de trabajo, ya que no se enfermarían tan a menudo. El tema no debe ser subestimado ya que es muy difícil que personas que vienen de la Amazonia se adapten al clima específico de Lima. Muchos shipibo apenas soportan el frío y la humedad en el invierno y se enferman con frecuencia.
A pesar de las ventajas del reasentamiento, no deben ser dejados de lado los posibles peligros. Por ejemplo, una reubicación asimétrica podría perturbar el orden social que existe en Cantagallo. Esto podría derivar en tensiones entre los habitantes y una ruptura de relaciones específicas, aunque esto podría tener también una influencia positiva en la estructura social del asentamiento.
Se puede esperar que debido a la corrupción y favoritismos, unos pocos habitantes podrían tener una ubicación más favorable dejando atrás a los más marginados de la comunidad. Los más afectados serían aquellos que tienen menos influencia dentro de la comunidad, que por lo general son madres solas, los jóvenes y los ancianos.
La ruta a Cantagallo
Los shipibo están acostumbrados a vivir en pequeñas comunidades a lo largo del río Ucayali en medio del bosque amazónico. Sus principales actividades han sido la pesca, agricultura y elaboración de artesanías. Sin embargo, desde el auge de la extracción de caucho entre 1880 y 1940, la agricultura de subsistencia se volvió mucho más complicada. No sólo los pueblos indígenas tenían que enfrentar la contaminación de sus ríos y deforestación extrema, también la economía de mercado había ingresado a la remota región de Ucayali y los bosques tuvieron que ceder ante el café, la palma aceitera y otros cultivos rentables.
Conforme los habitantes indígenas de la Amazonia se involucraban cada vez más en el mercado laboral, nuevas necesidades aparecieron. La creciente pobreza y discriminación fortalecieron el deseo de muchos indígenas por educación para sus hijos. En consecuencia, muchos hombres y mujeres shipibo (pero también de otros grupos indígenas) migraron a las grandes ciudades en Ucayali para encontrar trabajo que les permitiera mantener a sus familias y pagar la educación de sus hijos.
Las mujeres que por lo general aprenden a temprana edad a coser kené, el típico patrón geométrico shipibo, y elaborar pendientes y otras artesanías tradicionales, viajaron a las grandes ciudades como Pucallpa para vender sus productos, pero esas grandes ciudades ya estaban invadidas por los mercados de productos indígenas, mientras que los turistas preferían viajar a otras partes del Perú.
Ante la necesidad de mantener a sus familias, algunos hombres y mujeres shipibo decidieron probar suerte en la capital y en el 2000 fundaron la comunidad y asentamiento al que llamaron Cantagallo. Y desde entonces ha crecido.
A su arribo a Lima no había muchos lugares libres para instalarse cerca del centro de la ciudad y por eso los shipibo ocuparon una colina que había sido un basurero. Se construyeron sencillas casas de madera y la comunidad creció desarrollando sus propias estructuras sociales y destacando sus orígenes amazónicos. En el 2008, Cantagallo abrió su primera institución educativa intercultural y bilingüe en shipibo y castellano.
El megaproyecto y la minoria
La reubicación ha sido tema de muchas negociaciones y reuniones en los últimos años, aunque sólo ha circulado información incompleta y difusa sobre el futuro distrito donde se trasladarían y las viviendas. El único hecho era que no había hechos. No había contratos, ni información clara sobre la reinstalación del asentamiento. Los habitantes sabían que tenían que mudarse pero no dónde, cuándo ni cómo. No podían ejercer ninguna influencia sobre la situación.
El megaproyecto Vía Parque Rímac es una inversión de US$703 millones firmada en el 2009. A los shipibo de Cantagallo les dijeron que podrían diseñar sus propias viviendas y con ayuda de un arquitecto se elaboró un plano preliminar del nuevo asentamiento con pequeñas casas para las familias. Las viviendas estarían ubicadas a lo largo de una línea representando el cuerpo de una serpiente anaconda, con una plaza principal en la parte que corresponde a la cabeza. La anaconda es un animal sagrado de la cultura shipiba y construir un asentamiento de acuerdo con el cuerpo de esta serpiente sólo expresaría su cosmovisión. El proyecto fue desarrollado hace varios años y desde entonces nadie ha llegado a consultar a los habitantes de Cantagallo sobre sus futuras viviendas, únicamente para anunciar algunas novedades sobre la reubicación. La información con frecuencia era comunicada por personas no identificadas, sin documentos o pruebas.
El anunciado traslado a San Juan de Lurigancho debe realizarse de inmediato ya que no solamente el suelo debajo de Cantagallo está siendo extraído por las excavadoras, sino que a partir del 1 de enero del 2015 una nueva gestión ingresará a la municipalidad. La alcaldesa Villarán perdió las elecciones del 5 de octubre frente a Luis Castañeda Lossio, quien gobernó Lima entre el 2003 y el 2010.
Los shipibo tienen poco control sobre la situación, pero las cosas podrían cambiar. Los indígenas aseguran que sólo cuando las casas en Campoy estén terminadas podrán abandonar Cantagallo. Y hasta ahora no hay ninguna vivienda construida.
Sin embargo, algunos integrantes de la comunidad están muy optimistas: "Lo único que falta ahora es el título de propiedad y entonces tendremos nuevas casas, nos mudaremos allí y todo será mejor”, exclamó Olga Mori Díaz, residente de Cantagallo.
El nuevo asentamiento podría llevar a una mayor marginalización y vulnerabilidad social, o a una mejora, dependiendo de cómo los funcionarios resuelvan este asunto e involucren a la propia comunidad en decisiones, por ejemplo, relacionadas con las viviendas. Entonces los shipibo una vez más empacarán sus pertenencias para trasladarse lejos del lugar que eligieron, desplazados por personas que están sobre ellos económicamente, simbólicamente o por la fuerza, tal como ha sido con frecuencia en su historia reciente. No obstante, luego de 14 años en la gris Lima, el optimismo que han traído de Ucayali todavía prevalece.
*Maija Susarina es graduada en Antropología Social y Cultural por la Universidad Libre de Berlín y actualmente se encuentra llevando estudios de maestría en la misma universidad. Hizo su pasantía en Comunicaciones Aliadas durante el segundo semestre del 2013.
1 dicembre 2014
Leader delle religioni di tutto il mondo insieme contro le moderne schiavitù
Una dichiarazione comune sarà firmata domani in Vaticano da papa Francesco e da esponenti ortodossi, anglicani, musulmani, ebrei, indù e buddisti. Un’iniziativa del Global Freedom Network (GFN), con la quale si vuole affermare l'impegno a ispirare l'azione spirituale e pratica di tutte le fedi e delle persone di buona volontà in tutto il mondo per sradicare un fenomeno che coinvolge 36 milioni di persone.
Città del Vaticano - Leader religiosi cristiani, musulmani, ebrei, indù e buddisti firmeranno domani una dichiarazione comune di impegno per sradicare la schiavitù. Il documento che per la prima volta vede l'affermazione di intenti di esponenti delle principali religioni del mondo sarà significativamente sottoscritto nella Giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù.
La "Dichiarazione congiunta dei leader religiosi contro la moderna schiavitù" sarà firmata domani in Vaticano per i cattolici da papa Francesco, per gli ortodossi dal metropolita Emmanuel, in rappresentanza del patriarca ecumenico Bartolomeo, per gli anglicani da Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, per gli ebrei dai rabbini Abraham Skorka e David Rosen, per gli indù dall'indiana Mata Amritanandamayi (Amma), per i buddisti da Bhikkhuni Thich Nu Chan Khong in rappresentanza del maestro zen Thich Nhat Hanh e da Datuk K Sri Dhammaratana, capo sommo sacerdote della Malaysia, per i musulmani da Abbas Abdalla Abbas Soliman, in rappresentanza di Mohamed Ahmed El-Tayeb, Grande Imam di Al-Azhar, dal grande ayatollah Mohammad Taqi al-Modarresi e Sheikh Naziyah Razzaq Jaafar, in rappresentanza del grande ayatollah Sheikh Basheer Hussain al Najafi e dallo Sheikh Omar Abboud,
La Dichiarazione comune è frutto di un’iniziativa del Global Freedom Network (GFN), con la quale si vuole affermare l'impegno a ispirare l'azione spirituale e pratica di tutte le fedi e delle persone di buona volontà in tutto il mondo per sradicare la schiavitù moderna. Oggi è una realtà che, secondo la GFN coinvolge 36 milioni di persone vittime di traffico di esseri umani, lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi e in genere di ogni rapporto che non rispetta il principio che tutti gli esseri umani sono uguali e hanno la stessa libertà e dignità. Sono tutti crimini contro l'umanità, e devono essere riconosciuti come tali da tutti e da tutte le nazioni.
Alla firma saranno presenti esponenti di organizzazioni della società civile e del lavoro, tra i quali Andrew Forrest della Walk Free Foundation, che fa parte della GFN.
La Global Freedom Network ha definito sei campi di azione che si propongono di promuovere accordi di acquisto etico, di migliorare l'assistenza alle vittime e ai sopravvissuti, di sostenere riforme di leggi, di promuovere l'educazione e la sensibilizzazione e di garantire fondi consistenti per svolgere il proprio compito.
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