LA LUCE DELLA FEDE CI PORTA A CONSIDERARE LA “QUESTIONE RIFUGIATI”
NON SOLO COME UN PROBLEMA DI STAMPO SOCIALE,
MA SOPRATUTTO COME UNA MESSA IN DISCUSSIONE DEL NOSTRO ESSERE CRISTIANI.
I RIFUGIATI CI PONGONO LA SCELTA TRA IL VEDERE E PASSARE OLTRE
E IL VEDERE E AVERE COMPASSIONE.
Un rabbino chiese ai suoi allievi come si può conoscere il momento preciso in cui finisce la notte e comincia il giorno. Nessuna risposta data lo soddisfò: non è quando si riesce a distinguere un cane da una pecora o un albero di datteri da uno di fichi che si è certi che è giorno. Ma – rispose il rabbino – “quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, ponendo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno”. Solitamente la luce serve per poter distinguere. A noi serve distinguere per poter comprendere meglio la realtà. Ma questo processo non deve ottenebrare il nostro sguardo verso ciò che ci accomuna. Il nostro deve essere un “distinguere per unire” invece di un “distinguere per dividere”. Cristo Risorto, luce del mondo che rischiara ogni uomo, ci fa entrare nel Suo giorno per poter uscire dalle tenebre e vedere in ogni uomo e donna che abitano la terra un nostro fratello – anzi – il Cristo che ci viene incontro.
Era giorno a Lesbo il 16 aprile scorso. Pietro e Andrea – papa Francesco e il patriarca Bartolomeo – hanno camminato insieme, distinti nelle vesti che portavano, ma fratelli. La loro visita era un incontro dei due fratelli con centinaia di fratelli – senza distinzione di colore, etnia, religione... La luce del Risorto non permetteva di distinguere il cattolico dall’ortodosso, il cristiano dal musulmano, lo straniero dal fratello. La testimonianza del Santo Padre diventa per noi un richiamo per accogliere l’esortazione dell’apostolo delle genti: “ora siete luce nel Signore: comportatevi perciò come figli della luce” (Ef 5,8). Dall’isola greca segnata da questa crisi umanitaria ci è giunto questo grido da parte dei pastori: “per affrontare questa grave sfida, facciamo appello a tutti i discepoli di Cristo, perché si ricordino delle parole del Signore, sulle quali un giorno saremo giudicati: ‘Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto. [...] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’ (Mt 25,35-36.40)” (Dichiarazione congiunta).
La luce della fede ci porta a considerare la “questione rifugiati” non solo come un problema sociale ma soprattutto come una messa in discussione del nostro essere cristiani. I rifugiati ci pongono la scelta tra il vedere e passare oltre e il vedere e avere compassione (cf. Lc 18,29-37). Talvolta anche il nostro cuore si lascia ottenebrare da elementi di xenofobia, razzismo ed esclusione. Tendiamo anche noi ad assumere la logica di Satana riflettendo su questa crisi non secondo il pensiero di Dio ma secondo quello degli uomini. Riteniamo imprudente – perfino chi si è consacrato al Signore! – l’appello del pontefice fatto il 6 settembre scorso affinché ogni parrocchia, monastero e santuario d’Europa accolga una famiglia di profughi. Ma che senso ha essere cristiani se non si è capaci di adempiere il comandamento della carità che è segno essenziale del discepolo? Come sottolinea papa Francesco, il messaggio biblico per amare ed essere misericordiosi verso il povero “è così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo” (Evangelii gaudium 194).
Dobbiamo quindi pregare il Signore di donarci la forza per essere veramente suoi, “perché non solo parli, ma anche voglia, perché non solo mi dica cristiano, ma lo sia realmente” (Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani III, 2). Sarà più che opportuno che in questo momento drammatico per la storia e la Chiesa, le Chiese particolari si riuniscano per elaborare insieme un programma pastorale che indirizzi questo fenomeno epocale. Ritengo che stiamo perdendo tempo mentre i nostri fratelli continuano a soffrire. Gli immigrati vittime della violenza di coloro che predicano un dio della morte e della distruzione, rimangono certamente addolorati e scandalizzati nel trovare incomprensione e cuori chiusi da parte di chi professa la fede in un Dio della vita e della misericordia.
In quest’ottica i nostri fratelli e sorelle migranti sono il povero Cristo che bussa alla nostra porta, che mette a prova la nostra adesione a Lui. In sintesi, più che una questione umanitaria, per noi cristiani è questione di fede. Ci auguriamo che l’Anno Giubilare della Misericordia sia anche per noi occasione per aprire le porte delle nostre parrocchie e comunità affinché ci vestiamo con le opere della misericordia per essere trovati degni di entrare nelle nozze dell’Agnello (cf. Mt 22,12-13).
MARIO GRECH
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