2 novembre 2016

Tomasi: “Giusto dare la cittadinanza ai figli degli immigrati”

Parla il Segretario di «Iustitia et Pax»: l’integrazione è fatta di diritti e anche di doveri. «Decisivo» il contributo che gli extra-comunitari danno all’economia italiana e europea. Il Vecchio Continente è preda di un «soggettivismo esasperato» che brucia la solidarietà, mentre le cause delle grandi migrazioni non vengono affrontate

Monsignor Silvano Maria Tomasi, a lungo nunzio vaticano alla sede Onu di Ginevra, è ora Segretario delegato del Pontificio consiglio giustizia e pace dove segue, fra l’altro, l’accorpamento in corso dei vari dicasteri vaticani impegnati su carità è solidarietà, parte della riforma della Curia. Monsignor Tomasi si è occupato spesso di migrazioni nel suo lavoro diplomatico. Lo abbiamo intervistato a margine della presentazione del III Incontro mondiale dei movimenti popolari (vi prenderanno parte un centinaio di organizzazioni) in programma dal 2 al 5 novembre presso il Pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae a Roma.

Monsignor Tomasi, si può affermare che i profughi fanno parte di quella parte di umanità che il Papa definisce gli “scartati”?
«Direi che dobbiamo guardare al fenomeno in modo molto ampio, soprattutto dobbiamo essere oggettivi: non possiamo lamentarci se ci sono tanti rifugiati che bussano alle porte dell’Europa, degli Stati Uniti o dei Paesi sviluppati, quando le scelte degli stessi Paesi sviluppati sono spesso all’origine del movimento forzato di queste persone. Ci sono Stati, potenze, poteri che provocano i problemi da cui derivano i grandi spostamenti umani, cioè lo sradicamento delle persone dalla loro terra per sfuggire alla morte; questi Stati devono assumersi le responsabilità delle loro azioni: non è sufficiente stanziare delle somme di denaro per aiutare i profughi. Se non diamo la priorità alla ricerca delle soluzioni di ciò che provoca queste masse di migranti e rifugiati il problema non si risolverà».

La cause sono però molto complesse, mentre gli arrivi dei profughi sono un fatto di cronaca quotidiana...
«Certo, ci vogliono tempi lunghi per rimediare alle cause. Però, per esempio prendiamo il caso della Siria, dove ci sono almeno tre milioni e mezzo di rifugiati fuori del Paese, 6 milioni di sfollati all’interno; se i poteri che si stanno combattendo in Siria non si mettono intorno a un tavolo con l’obiettivo di trovare un accordo e far cessare la violenza, l’esodo continuerà. La volontà politica di fermare la violenza può essere messa in atto stasera, oggi stesso, però ci vuole appunto una volontà protesa alla ricerca del bene della gente e non dei propri interessi egemonici».

In Europa, però, i profughi fanno paura. Anche in Italia c’ è stato il caso del paese di Goro dove alcune donne e bambini sono stati respinti dalla popolazione. Come si cambia questo atteggiamento?
«La paura che c’è ora è dovuta alla mancanza d’informazione. Una delle responsabilità dei mezzi di comunicazione è anche quella di educare, di far capire che c’è un aspetto molto positivo nella presenza degli emigranti e dei rifugiati, purché questa presenza sia gestita in maniera razionale e saggia. Per esempio, tutti gli studi e le ricerche fatte, ci dicono che, a lungo andare, le migrazioni portano benefici sia agli emigrati, che al Paese di accoglienza che ai Paesi d’origine. Prendiamo il caso dell’Italia: ci sono forse poco più di due milioni di immigrati che lavorano regolarmente, pagano le tasse e vivono in maniera normale. Da questo lavoro arrivano le risorse che servono all’Italia per l’emergenza migratoria, ma anche per pagare 600mila pensioni ad altrettanti italiani. E’ un dato del ministero dell’Interno. Questi aspetti positivi, devono essere messi in luce per dire alla nostra comunità: guardate, non è tutta una minaccia, un rubare il posto di lavoro, ma è un contributo al bene complessivo dell’Italia».

Un timore diffuso è pure quello dell’ “invasione” da parte di altre culture...
«In effetti un altro aspetto importante è la paura del cambio d’identità. Si dice: perdiamo la nostra identità perché arrivano nuove culture, nuove religioni che sbilanciano la società così come la conosciamo. E questo è un aspetto più complicato, più difficile da affrontare. Però dobbiamo anche dire che c’è una responsabilità da parte dei Paesi come l’Italia o del resto d’Europa che ricevono i migranti: quella di dire a questi ultimi ’cari amici, avete bisogno di protezione e siete i benvenuti, però abbiamo alcuni valori fondamentali – l’uguaglianza dell’uomo e della donna, la libertà di religione, l’accettazione del pluralismo della società, la separazione fra religione e politica – che dovete accettare altrimenti non possiamo vivere assieme in pace’. Quindi l’educazione all’integrazione diventa ancora più importante del dibattito sul numero di quanti ne dobbiamo ricevere e fino a che punto dobbiamo aprire la porta».

Proprio su questo punto in Italia c’è il nodo relativo alla mancata riforma del diritto di cittadinanza, in particolare per i figli degli immigrati nati qui. Cosa ne pensa?
«I giovani nati in Italia o venuti bambini in Italia, che si stanno integrando molto bene, devono avere la possibilità anche legalmente di essere riconosciuti come italiani, dobbiamo puntare sulla cittadinanza con uguaglianza di diritti e doveri e non sull’identità religiosa o etnica, come capita per esempio in Medio Oriente dove questo approccio della non-cittadinanza è la fonte di un continuo problema di discriminazione strutturale per le persone che non sono parte della maggioranza».

E’ quasi quotidiana la polemica sullo scarso impegno dell’Europa di fronte ai flussi dei profughi, e spesso l’Italia critica l’Ue. Ma quali sono le ragioni di questa difficoltà dell’Unione di fronte al problema?
«Ciò che meraviglia è che l’Europa sta lasciando una simile questione, che tocca tutti i Paesi del continente, ai margini del dibattito più serio. Certo se ne parla in tutte le riunioni, ci sono incontri di emergenza a Bruxelles di ministri degli interni, degli esteri, di primi ministri, per affrontare il problema senza però arrivare a delle conclusioni concrete, efficaci e accettate da tutti i Paesi. Questo fatto indica che siamo in una cultura pubblica, a mio avviso, in cui il soggettivismo estremo sta bruciando la possibilità di una solidarietà che sarebbe un beneficio per tutti i Paesi dell’Europa: non si tratta insomma solo di una scusa per aiutare l’Italia o la Grecia. In secondo luogo siamo di fronte all’invecchiamento dell’Europa, il calo demografico dimostra che c’è bisogno di mano d’opera, può sembrare un’ironia dire questo, ma se si analizza la situazione le cose stanno così. Abbiamo bisogno di persone che lavorano per pagare eventualmente le pensioni dei pensionati italiani; poniamo le premesse di un’integrazione intelligente, coerente, umana, da qui nascono rapporti interpersonali di amicizia, di accettazione reciproca, che evitano le tensioni che abbiamo visto in altri Paesi europei».

Quali sono i temi al centro di questo III Incontro dei movimenti popolari?
«Sono quelli dell’ambiente, quindi della protezione del territorio e dell’uso della terra in maniera razionale e rispettosa, e dei movimenti di popolazione, dei rifugiati e migranti. Gli organizzatori mi pare che vogliano rispondere alle priorità del Papa in un certo modo: questi gruppi di migranti e profughi sono troppo discriminati, sono vissuti come una minaccia, e invece sono una parte di noi. Dobbiamo trovare un modo decente per incorporarli nella società e aiutarli a diventare costruttivi e produttivi nella nostra comunità. Questo è possibile, se guardiamo a quante imprese sono state create dagli immigrati negli ultimi anni, vediamo che hanno dato un contributo enorme all’economia italiana. Poi per quanto riguarda l’ambiente, la coscienza pubblica maturata con l’enciclica ’Laudato sì’, con la conferenza di Parigi (cop 21, sul riscaldamento globale, tenutasi un anno fa; ndr) e che adesso si ripeterà con il cop 22 a Marrakech in Marocco, mostra che c’è una risposta positiva alle preoccupazioni della Chiesa la quale dice: rispettiamo la casa comune perché abbiamo tutti l’interesse, per l’oggi e per le generazioni future, che sia una casa in ordine, dove la produttività di cibo sia adeguata per tutti, in cui ci sia il rispetto delle esigenze della natura, che non venga contaminata eccessivamente dalle emissioni inquinanti».

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