Direttore generale Migrantes
Presentazione Rapporto Centro Astalli 2012
(Roma, 29 marzo 2012)
I numeri e i volti del Rapporto annuale del Centro Astalli ci segnalano una crescita costante di persone in fuga da situazioni di guerre o da rivoluzioni in corso – almeno 25 – che creano nuovi cammini o vedono la destinazione per chi è in cammino da un lungo tempo di mesi e di anni. Sono storie di chi è al di là del Mediterraneo, di un mare comune; oppure lo hanno raggiunto dal Corno d’Africa o dal Centrafrica (Nigeria, Mali, Ghana, Costa d’Avorio). Sono storie di un Medioriente da anni in cerca di pace. Sono storie di un Oriente che ancora una volta , come ai tempi del Vietnam e della Cambogia, sollecita un’ attenzione a nuove drammatiche situazioni: Iran, Iraq, Afganistan e Bangladesh in particolare. C’è un mondo in movimento per disastri ambientali naturali o causati dall’uomo, almeno 350 negli ultimi anni, 10 volte maggiore rispetto agli anni precedenti: la distruzione del creato crea una mobilità che è sempre maggiore. Ma accanto a questi mondi noti c’è un mondo in fuga alla ricerca di una sicurezza personale, sul piano culturale , religioso e politico, che domanda un’attenzione nuova. Sono singole persone e famiglie, più che popoli. Sono storie di fragilità e di precarietà che invocano la responsabilità di tutti, cittadini e istituzioni, ricordando il dettato costituzionale che afferma: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge” (Costituzione italiana, art. 10, comma 3).
Questi mondi in fuga denunciano una situazione crescente di militarizzazione di aree del pianeta, oltre che lo sfruttamento incondizionato del creato; ma al tempo stesso dicono ‘la debolezza della democrazia’ nel leggere la situazione globale. Questo mondo in fuga chiede con forza ancora di più una politica internazionale, che sappia andare oltre gli equilibri costruiti per rafforzare la tutela delle città e delle metropoli.
Credo che oggi il fenomeno delle migrazioni, immigrati e richiedenti asilo e rifugiati, solleciti profondamente una rilettura della democrazia, perché sappia andare oltre la semplice affermazione di alcuni diritti fondamentali che tutelano le persone di un singolo Paese, per costruire nuovi meccanismi di tutela soprattutto di chi è in cammino: oggi 214 milioni di persone.
La centralità della persona porta a rileggere la territorialità in cui vivono le persone, perché sia adeguatamente capace di ospitalità. Pena l’insicurezza.
Per fermaci a leggere la realtà della protezione internazionale, questo diritto universale interpella l’Europa e in essa l’Italia, perché ‘la casa comune’ sappia costruire anche oggi luoghi e forme di tutele. Come si realizzarono nel dopoguerra (1946-48) per oltre 12 milioni di persone trasferite dai territori dell’Est, dal Paese dei Sudeti in seguito all’accordo di Postdam, o per i 2 milioni e ottocentomila tedeschi della Germania dell’Est nella Germania dell’Ovest, per 300.000 ebrei accolti in Germania, Austria e Italia in cammino al termine della seconda guerra mondiale prima di approdare in Israele nel 1948 , facendo iniziare un altro cammino di 1 milione di palestinesi, o per i quasi 200.000 profughi ungheresi dopo il 1956. Quest’ultimi furono accolti in 17 paesi europei ( 20.000 in Inghilterra, 11.000 in Germania, 10.000 in Svizzera, 9.000 in Francia, 5.000 in Svezia e 4.000 in Italia, 3.000 in Belgio, 2000 in Olanda, 1.000 in Danimarca e Norvegia e poche unità in altri Paesi) e 19 non europei: questo a significare un’organizzazione e un’attenzione comune già in quegli anni a condividere le richieste d’asilo.
L’Emergenza del Nord Africa che ha portato 62.000 persone in Italia nel 2011 via mare, ha visto l’incapacità dell’Europa di costruire un percorso di protezione internazionale condiviso, dimostrando la debolezza della democrazia europea. A fronte degli arrivi, nel 2011 l’Italia ha concesso a 10.000 persone una forma di protezione internazionale (asilo, protezione sussidiaria, protezione umanitaria). E’ mancata in questi anni la consapevolezza politica, a cui aveva già invitato a considerare fin dal 1958 Giorgio la Pira nei Colloqui sul Mediterraneo, che il Mediterraneo è un confine, un limes, cioè una strada che se non è percorsa da canali umanitari rischia di essere una zona franca del traffico degli esseri umani, una barriera che respinge persone e famiglie e, peggio ancora, la tomba di uomini, donne e bambini in fuga. L’Italia della sicurezza e non di una rinnovata politica sociale delle migrazioni è stata la prima vittima di se stessa: incapace di leggere un fenomeno in corso nell’altra sponda, ideologicamente centrata su una inutile e vergognosa politica dei respingimenti, costretta ad affrontare l’emergenza con gli strumenti insufficienti della Protezione civile, caricando di nuovi pesi sociali il mondo del volontariato, nel tentativo prima di fermare l’ondata al Sud senza una condivisione nel Paese, poi di limitarlo dentro grandi centri (Mineo), per arrivare infine a una lenta condivisione dell’accoglienza in tutto il Paese, ma senza un progetto strutturale, senza il coinvolgimento della rete dei Comuni e dello Sprar, con il rischio di un’accoglienza senza prospettive in ordine alla casa, alla formazione e al lavoro e quindi destinata a costruire nuove situazioni di irregolarità. Questa ‘debolezza della politica migratoria e dell’asilo’ pesa sul futuro di persone che richiedono asilo nel nostro Paese, e vede l’Italia oggi incapace di sperimentare concretamente forme nuove di tutela delle vittime di fenomeni nuovi che incrociano asilo e tratta, o di cogliere il dramma dello sfruttamento e delle violenze di gruppo nei Paesi di origine o di passaggio di molte persone. I fatti di Lampedusa hanno indicato chiaramente la debolezza di una democrazia incapace di leggere la storia: una debolezza culturale, prima che politica che chiede l’allargamento di un dibattito su questi temi, perché cresca una consapevolezza popolare sul peso della mobilità oggi, in particolare sull’asilo, che vede in gioco la credibilità internazionale del nostro Paese.
Come scriveva l’architetto Giovanni Michelucci già 25 anni fa in una lettera a Padre Balducci per un convegno a Firenze sulla città, l’ospitalità non nasce solo da un dovere di accoglienza, ma dall’esigenza di un progetto di revisione della città, alla luce delle situazioni d’incontro nuove. L’architetto, partendo da due metafore, la città carcere e la città tenda, scriveva: La città carcere e la città tenda non sono solo dei luoghi identificabili nello spazio, sono due metafore che stanno ad indicare tutto ciò che nella città esiste come edificio, talvolta perfino di pregevole fattura , senza per questo avere con la città alcun rapporto attivo, rappresentando anzi la negazione della città. E concludeva il noto architetto: “la sfida che propongo alla città attuale è dunque la sfida di saper accogliere al suo interno i diversi di ogni tipo, non per dovere di ospitalità, ma come speranza progettuale… Il modello di una società civile che accetta dentro di sé il diverso, come ipotesi positiva di cambiamento rappresenta di fatto una cultura superiore rispetto agli equilibri militari che ci sovrastano. La società del sospetto, dell’isolamento con cui sono regolate le nostre città rappresentano purtroppo un’agghiacciante analogia a quegli equilibri”1.
Pensare di rispondere occasionalmente a un fenomeno ormai strutturale di richiedenti asilo, di rifugiati, significa non avere un progetto e non mettere in rete le risorse diverse delle città in Italia e in Europa, oltre che generare di continuo situazioni di precarietà. Occorre presidiare con la nostra azione la qualità dell’ospitalità nelle strade di confine e di passaggio, come fecero un tempo per i pellegrini e i forestieri i monasteri. Alcune città possono ritrovare la loro vita nell’ospitalità: Lampedusa può essere in questo senso una città che può aprire la strada. Non si tratta solo di aprire un centro, ma di ridisegnare l’isola. E in questo percorso tutti sono importanti: le famiglie, la scuola, la comunità parrocchiale, gli albergatori e i marittimi, i giovani e gli adulti.
Occorre allargare le storie di incontro, i cammini di accompagnamento e di tutela, le strutture di accoglienza, oggi insufficienti rischiando di lasciare sole e abbandonate migliaia di persone e famiglie. Come occorre abbandonare l’idea di moltiplicare i luoghi, quali sono i CIE, che moltiplicano violenze e creano insicurezza.
Infine i dati del Rapporto chiedono alle Chiese, a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, di rileggere le sollecitazioni della Gaudium et spes : a ribadire il diritto all'emigrazione (cfr. GS 65), la dignità del migrante (cfr. GS 66), la necessità di superare le sperequazioni nello sviluppo economico e sociale (cfr. GS 63) e di rispondere alle esigenze autentiche della persona (cfr. GS 84). La centralità della dignità della persona sono un segno della “democratizzazione dell’Europa” di cui parla la Charta Oecumenica (n.8).
Grazie ancora allora a questo Rapporto perchè, insieme alle molte sollecitazioni che in questi mesi abbiamo avuto in tante direzioni - sulla condanna ai respingimenti della Corte europea dei diritti umani, sulla scelta di oltre 100.000 persone di chiedere al Parlamento di rivedere la cittadinanza e il diritto di voto degli immigrati, sull’esigenza di un diritto d’asilo europeo, sulla lotta al traffico e alla tratta degli esseri umani, sulla libertà religiosa, su cammini nuovi di integrazione -, ci aiuta a ridisegnare il cammino della Chiesa e della società in sintonia con i cammini degli uomini di oggi.
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1. G. MICHELUCCI, La città tenda e la città carcere; in: La sfida delle città, Atti Convegno testimonianze, 19-20 dicembre 1987, Firenze, pp. 132-134.
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