27 giugno 2012

Dialogo Interreligioso

Aver visto il Papa che prega


È quello che conta anche nel dialogo con l’islam. Appunti e riflessioni del presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso

del cardinale Jean-Louis Tauran

Il cardinale Jean-Louis Tauran tra gli studenti del centro di formazione professionale Inter-Faith, a Bokkos, in Nigeria.

Recentemente un professore dell’Università di Tunisi si è rivolto ai suoi studenti così: «Siate attenti a non lasciar cadere le vostre penne, perché altrimenti nelle vostre mani rimarranno i coltelli». È un avviso saggio. Più la situazione è precaria, più il dialogo è necessario, perché non c’è alternativa. Certamente noi cristiani – nelle scuole, nelle università e negli ospedali che manteniamo nei Paesi a maggioranza musulmana – abbiamo cura di testimoniare l’amore verso tutti e senza condizioni o distinzioni, e i nostri amici musulmani apprezzano sinceramente tale atteggiamento. Giorno dopo giorno, lavorando in questo Pontificio Consiglio, riscopro una dimensione talvolta accantonata: i nostri amici musulmani rispettano la gente che prega. Una liturgia o un’Eucaristia ben preparate e ben celebrate costituiscono una valida testimonianza cristiana. Mi ricorderò sempre, quando ero alla Segreteria di Stato, quanto mi disse un ambasciatore di religione musulmana, venuto a fare la tradizionale visita di congedo: «Dopo tre anni di missione presso la Santa Sede, ciò che più mi ha colpito non è la vostra posizione politica sul Medio Oriente o il prestigio della diplomazia pontificia, ma l’aver visto il Papa pregare». Credo che ciò sia per noi come un invito a essere sempre persone di fede, a non aver mai paura di manifestarla. Ovviamente possono esistere ostacoli esterni (la discriminazione per motivi religiosi) o anche interni (ignoranza, peccato) che fanno sì che la nostra testimonianza non sia sempre luminosa.
È importante che chi entra in dialogo abbia un’idea chiara del contenuto della propria fede e un profilo spirituale ben determinato: non può esserci un dialogo fondato sull’ambiguità. Purtroppo, tanti giovani cristiani hanno un’idea superficiale del contenuto della loro fede; ecco perché è una grande grazia avere un papa come Benedetto XVI, che sa testimoniare e insegnare che la nostra fede non è un sentimento o un’emozione – forse lo è anche, in alcuni momenti – e di certo non è un mito. Gesù Cristo è esistito, è stato uomo tra gli uomini, è vissuto in un periodo e in un luogo storicamente determinati, è morto ed è risorto. Papa Benedetto ci parla anche dell’equilibrio tra ragione e fede. In una omelia in Germania, diceva: «La fede è semplice. Crediamo in Dio – principio e fine della vita umana. In quel Dio che entra in relazione con noi esseri umani». Ma si domandava: «È una cosa ragionevole?», e precisava: «Noi crediamo che all’origine c’è il Verbo eterno, la Ragione e non l’Irrazionalità» (santa messa a Regensburg, 12 settembre 2006).
Accanto alla fede e alla ragione, importante è anche l’amicizia. Il dialogo interreligioso non è un dialogo tra le religioni, ma tra i credenti chiamati a testimoniare nel mondo di oggi che non di solo pane vive l’uomo. Tutto comincia col rispetto per finire con una rispettosa amicizia. Quando siamo di fronte a qualcuno che crede e prega diversamente da noi, occorre prima prendersi il tempo di guardarlo, di capire le sue aspirazioni spirituali; poi dopo passeremo in rassegna ciò che ci distingue e ciò che invece ci unisce. E se un patrimonio comune esiste, a quel punto spetta a tutti noi offrirlo alla società circostante, perché il dialogo religioso non è destinato alla mia comunità, ma all’altra, a quella del mio interlocutore. Il dialogo è un’apertura che ci chiama ad avvicinarci con delicatezza alla religione e alla cultura degli altri.
Che cosa mi aiuta di più nel mio lavoro? La testimonianza ammirevole dei cristiani che ho avuto la grazia di incontrare in Paesi nel Medio e nell’Estremo Oriente e recentemente in Africa. La loro adesione convinta alla fede, la loro fedeltà alla Chiesa, l’affetto filiale che hanno per il Papa, tutto questo è un grande aiuto per tutti. Gesù è lì in queste piccole comunità. È la fede dei semplici, disponibili ad accogliere il vescovo che li visita, a chiedere una benedizione, perché sanno attraverso una fede intuitiva che la Chiesa è una famiglia.
Certo, dopo la mia ordinazione sacerdotale non immaginavo di dover vivere il mio sacerdozio praticando il dialogo, prima “diplomatico”, oggi “interreligioso”, anche se, sulle immagini della mia ordinazione sacerdotale, avevo fatto stampare le parole di Paolo ai Corinzi: «In nome di Cristo… siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5, 20).
Il dialogo interreligioso mi ha permesso, devo confessare, di approfondire la mia fede, perché quando chiedo a un altro come vive la propria fede, so che l’indomani verrà posta a me la stessa domanda. Nel mondo pluralista di oggi, saremo sempre di più chiamati a rendere ragione della «speranza che è in noi… ma sempre con rispetto e dolcezza», come raccomandava Pietro (1Pt 3, 15-16).

Benedetto XVI durante la recita del rosario

Recentemente mi trovavo in Nigeria, e sono stato invitato a visitare una scuola professionale, fondata da un sacerdote, dove sono accolti per due anni ragazzi, sia musulmani sia cristiani. Ho ammirato il mutuo rispetto che dimostravano, la gioia di stare insieme e anche la dimensione religiosa che quel sacerdote ha saputo istillare in loro, senza relativismo o sincretismo.
Sono convinto che è possibile vivere assieme nelle società umane dilaniate da tanta violenza ed essere, quali credenti, fermenti di perdono, di riconciliazione e di pace
Infine, più di una volta m’è stato chiesto se “don Tauran” riesce a dare testimonianza all’interno dei suoi impegni istituzionali.
Non so se la mia vita sia stata una credibile testimonianza, però dopo la mia ordinazione sono stato sempre abitato da una convinzione: devo essere prima sempre sacerdote, qualsiasi siano le circostanze. La cosa importante per un sacerdote ma anche per i fedeli è che, attraverso la nostra vita di ogni giorno, chi non conosce Gesù, possa “indovinare” la sua presenza in mezzo a noi. Onde l’importanza di una Chiesa unita e missionaria.
Fra qualche giorno pronuncerò a Rouen il panegirico di Giovanna d’Arco e mediterò su alcune frasi che ella pronunciò prima di morire. Vorrei menzionarne una che ho imparato sin dagli anni del Seminario: «Dieu fait ma route / Dio traccia il mio cammino». La cosa importante nella vita di ogni cristiano, e a maggior ragione per un sacerdote o un vescovo, è il coltivare la libertà interiore per poter permettere a Dio di realizzare, malgrado i nostri limiti, il suo progetto: radunare tutti gli uomini in un’unica famiglia.

(Testo raccolto da Giovanni Cubeddu)

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