Colpita dalle accuse di violazione dei diritti dei lavoratori immigrati
mosse da Unione Europea e Stati Uniti, la Thailandia cerca di recuperare
credibilità e mercato. Servizi apparsi sulla stampa
internazionale il mese scorso e le testimonianze raccolte da gruppi per la
difesa dei diritti umani riguardo gli abusi verso birmani, cambogiani e
vietnamiti impiegati nell’industria ittica hanno portato il paese al livello
più negativo, il terzo, nella lista dei paesi che meno si impegnano per la
cancellare il lavoro forzato. Il rischio concreto di sanzioni se il governo non
dovesse intervenire efficacemente si associa a un calo già presente
dell’export, soprattutto per quei prodotti o quelle aziende che sono stati
segnalati come maggiori responsabili della situazione.
L’export
thailandese di prodotti ittici verso l’area Ue vale 7 miliardi di dollari
all’anno, essenziale oltretutto per un’economia in rallentamento su molti
fronti. Non ultimo come conseguenza del colpo di stato militare, della
permanenza della legge marziale e di provvedimenti attuati o allo studio che
vorrebbero limitare investimenti e presenza straniera a tutela
dell’imprenditoria locale in un momento in cui il paese avrebbe, tra le
priorità, quella aprirsi a esperienze, know-how e interventi mirati dall’estero
per reggere concorrenza regionale e modificare le regole socio-culturali che ne
ostacolano lo sviluppo.
Nonostante la
giunta la potere, oggi a fianco di istituzioni civili comunque controllate dai
militari abbia regolarizzato un gran numero di immigrati prima illegali, resta
la scarsa convinzione nel combattere fenomeni di abuso che chiamano in causa
interessi locali e anche la difficoltà culturale a individuare pari dignità per
tutti, thai e non thai.
Lo stesso
direttore generale del dipartimento europeo del ministero degli Esteri
thailandese nei giorni scorsi ha ammesso che i servizi sulla stampa estera sono
stati il catalizzatore per promettere interventi contro gli abusi e per le
iniziative utili a rilanciare immagine e export, in Europa e altrove. Il
coordinamento di varie agenzie per individuare le aree di sfruttamento è
innovativo, anche se viene sottolineato con eccessivo interesse l’uso di
documenti falsificati che, ad esempio, nasconderebbero l’età reale degli
immigrati.
Comunque sia, nessuna
risposta è stata data alla richiesta Ue che il governo di Bangkok fornisca un
rapporto semestrale sui progressi della situazione. Una richiesta avanzata a
nove dei consumatori europei che alla qualità chiedono sia associata una
produzione non interessata dal lavoro coatto o in condizioni inferiori agli
standard. La minaccia di un “cartellino giallo” per l’export thai è concreta e
costituisce un deterrente efficace, ma si scontra anche con una complessa
situazione politica e economica, con interessi in conflitto e le logiche che ne
derivano, a uso soprattutto interno.
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