4 settembre 2012

Il card. Martini e l'immigrazione


Pubblichiamo un testo del card. Carlo Maria Martini pronunciato nel 2001 al convegno sul tema: "Integrazione e integralismi. La via del dialogo è possibile?"

"Riguardo alla situazione, la presenza degli stranieri tra noi, pur con tutti i progressi compiuti, non è ancora ben assimilata e nemmeno ben tollerata. Vi sono delle reazioni negative comprensibili, dovute a momenti particolarmente drammatici: per esempio, quando gli stranieri commettono dei reati. In questi casi l'orrore e il rifiuto sono giustificabili, come pure la domanda di legalità e di difesa dell'ordine pubblico è più che legittima.
Ma, al di là di tali circostanze, permane nella gente un timore e una diffidenza verso gli stranieri.
Riguardo allo scenario di fondo, siamo di fronte a un nuovo, grande processo di rimescolamento delle genti, per una serie di fattori che conosciamo. L'Europa e il Nord America vivono un'epoca di benessere e di democrazia tra i più alti della storia. Di conseguenza, il sud del mondo, povero e spesso sottosviluppato, preme verso il nord del mondo. L'ideale sarebbe lo sviluppo di questi paesi nelle loro terre, in modo che ogni persona trovi cibo, lavoro e libertà a casa propria. A livello internazionale occorre certamente puntare sullo sviluppo e la promozione del sud. Non è però una soluzione attuabile a breve termine, per motivi sia politici sia socio-economici, motivi che in questa sede non è possibile approfondire.
Quali sono dunque gli sviluppi prevedibili della situazione attuale, in particolare per gli stranieri extracomunitari che fanno più fatica a essere integrati? In proposito si è parlato molto negli ultimi mesi dell'Islam e delle probabilità maggiori o minori che ha di integrarsi con la nostra cultura e le nostre tradizioni. A mio avviso siamo di fronte a tre ipotesi possibili: secolarizzazione, integralismo, integrazione.

* C'è l'ipotesi di una secolarizzazione o omogenizzazione dei nuovi venuti che accettano la modernità europea, con il suo scetticismo, il suo individualismo, il suo indifferentismo, e abbandonano a poco a poco le tradizioni d'origine mescolandosi con l'ambiente circostante.

* L'ipotesi contraria è quella del costituirsi di ghetti, di luoghi di chiusura e di resistenza, in cui si conservino rigidamente le tradizioni e la coscienza della propria estraneità, magari con la prospettiva ''medicale", di una conquista graduale del territorio, grazie soprattutto alla crescita della natalità.

* Una terza ipotesi possibile è quella di una integrazione graduale e progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante.

Non sappiamo quale di queste prospettive si realizzerà, e molto dipende anche da noi. Mi pare tuttavia che la terza ipotesi -integrazione graduale e progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante- sia l'unica accettabile. E' una prospettiva ardua, per la quale occorre operare non solo nel quadro del superamento delle paure, non solo nel quadro della legalità, ma con una pedagogia che insista specialmente sui bambini e sui ragazzi, figli degli immigrati, dal momento che sono più facilmente adattabili alle situazioni nelle quali vivono. Per loro è un bene potersi integrare con serenità nell'ambiente dove imparano ogni giorno a vivere. Non chiediamo, naturalmente, che rinuncino ai tratti civili e morali che li caratterizzano, purché siano rispettosi della cultura del paese ospitante. Chiediamo dunque, anzi esigiamo il rispetto delle leggi proprie del paese.

IV - La domanda più specificamente religiosa

Rimane la domanda più specificamente religiosa che è stata posta all'inizio del nostro incontro, la domanda sul mandato di Gesù: "Andate e predicate il Vangelo".
Nel confronto che siamo tenuti ad avere con le altre religioni e culture, quanto c'è ancora della forza evangelizzatrice che avevano i primi cristiani?
La risposta va articolata. Vi sono, infatti, gli immigrati cristiani (circa la metà), in parte cattolici e in parte ortodossi, che stanno già portando un'iniezione di vitalità e di generosità nelle nostre parrocchie e nei loro luoghi di culto; basta partecipare ad alcune delle loro feste per rendersene conto. Ogni anno sono invitato al Natale dei copti ortodossi originari dell'Egitto, presenti in gran numero a Milano: la sera del 6 gennaio celebrano il Natale ed è impressionante vedere quanti giovani, donne, uomini, bambini pregano intensamente. Aggiungo, tra l'altro, che, pur essendo ortodossi, mi accolgono alla porta della chiesa con inchini e danze per condurmi poi all'altare maggiore dove il Vescovo presidente mi rivolge un saluto con espressioni piene di affetto. E' una realtà immigrata che ci aiuta attraverso una forte testimonianza cristiana.
Penso inoltre ad alcune celebrazioni vissute con la comunità filippina, molto fervente, profondamente cattolica, e a celebrazioni solennissime di comunità latino-americane, come i peruviani.
La domanda sull'evangelizzazione non riguarda quindi lo straniero in genere, bensì i non cristiani, in maniera speciale l'Islam. E al riguardo rispondo ricordando anzitutto la parola di san Paolo: ''Guai a me se non evangelizzo" (1Cor 9,16). Il cristiano è sempre tenuto a testimoniare la sua fede ovunque e a chiunque, tenendo ovviamente conto della diversità delle situazioni e della molteplicità degli approcci. Bisogna per questo evangelizzare col Vangelo della carità, dell'accoglienza e anche col Vangelo della pazienza. E' la prima testimonianza che rende presente il Dio che amiamo.
C'è poi l'evangelizzazione fatta col Vangelo della vita, vivendo l'onestà, la sincerità, la trasparenza nei rapporti di lavoro, l'accoglienza e la mutua fiducia.
Infine, il Vangelo della parola, che può essere particolarmente arduo da annunciare in certe circostanze. Sarà necessario cominciare togliendo i pregiudizi, chiarendo le idee sbagliate, crescendo nella conoscenza reciproca. Non dobbiamo però mai tralasciare di proporre la verità, in cui crediamo e che amiamo, nella maniera più adeguata alle singole situazioni, cioè nei tempi e nei modi opportuni.
Concludo riferendomi al racconto di Luca dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, di cui soltanto uno, lo straniero, ritorna a ringraziarlo; e Gesù, stupito e amareggiato, domanda: "Non sono forse stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?'' (17, 17-18). Noi ci troviamo più volte tra i nove che non sanno ringraziare, non sanno apprezzare il dono della fede perché lo ritengono quasi ovvio e scontato, e che hanno dunque perso qualcosa della forza evangelizzatrice dei primi cristiani.
La presenza crescente di stranieri nel nostro paese è davvero un'occasione provvidenziale per noi di ritornare indietro da Gesù, di guardare alla nostra origine, al nostro battesimo, al dono della fede. Se ci lasceremo invadere dalla gratitudine per tanto dono e lo vedremo bello ed entusiasmante per noi stessi, sarà più facile farlo comprendere e trasmetterlo ad altri".

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