22 settembre 2016

Rifugiati e responsabilità nell’anno della misericordia. Non i confini ma le persone

Apostolato militare a congresso. È in corso a Vught, nei Paesi Bassi, il congresso dell’Apostolato militare internazionale. Pubblichiamo stralci dell’intervento dell’arcivescovo ordinario militare per l’Italia intitolato «I rifugiati alla luce della Laudato si’ e dell’anno della misericordia».


(Santo Marcianò) Lo scarto dei rifugiati non è solo il rifiuto che può esserci alle frontiere ma inizia da una cultura che divide il mondo in ricchi e poveri, potenti e deboli, facendo sempre ricadere sui deboli le conseguenze di ogni ingiustizia e discriminazione, anche quella contro il creato.
«È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa […]. La mancanza di reazione di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile» (Laudato si’, 25). Nella denuncia di Papa Francesco, la parola «responsabilità» risuona in tutta la sua chiarezza.
C’è una responsabilità disattesa, verso l’uomo e il mondo, verso la giustizia e la pace, che ha permesso e continua a permettere l’emergenza dei rifugiati. C’è però anche chi, come l’Italia, si è assunta una tale responsabilità di soccorso e di accoglienza: al 31 dicembre 2015, un totale di 103.792 stranieri risultava ospitato in diverse strutture. È una responsabilità accolta soprattutto da militari e forze dell’ordine italiani: Marina, Aeronautica, Guardia di Finanza, Polizia, Carabinieri. Coordinati dalla Guardia costiera e in collaborazione con altri, costoro riescono a compiere un lavoro che le stesse istituzioni spesso non sono capaci di organizzare e, d’altra parte, considerano la propria missione di difesa della vita come prioritaria anche rispetto a limiti imposti da leggi e accordi internazionali. In questa «responsabilità» si colgono, dunque, inedite sfumature della missione dei militari, quasi un “nuovo profilo” disegnato sul serio e significativo impegno di combinare l’accoglienza con la sorveglianza, la protezione dei cittadini con il soccorso agli stranieri.
Custodire il Paese e chi nel Paese arriva. Custodire e difendere: non i confini ma le persone. Oltre alle operazioni di soccorso, pensiamo al compito di difesa dalle organizzazioni criminali che trovano sostentamento nelle reti internazionali, al ruolo nella tratta di esseri umani, fenomeno sconvolgente e più volte denunciato dal Santo Padre, o all’arresto degli scafisti. Ciò esige grande competenza e senso di collaborazione e chiede che la tecnologia, anche la più raffinata, sia sempre a servizio del salvataggio di vite umane. Ma un’altra responsabilità spetta alla politica internazionale: il senso di condivisione tra i vari Paesi.
È ancora duplice la prospettiva: la cura degli uomini è tutt’uno con la cura della terra, della «casa comune», nella «consapevolezza che siamo una sola famiglia umana» e «non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettono di isolarci» (Laudato si’, 52). È proprio vero quanto nell’enciclica afferma Papa Francesco. Ma è altrettanto forte il suo grido levato verso il vecchio continente: «Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?» (Discorso per il conferimento del premio Carlo Magno). E il grido si fa sogno: «Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo» (ibidem), confessa Francesco.
Noi Chiesa, noi Chiese d’Europa, sentiamo che questo sogno ci è affidato, come una vera e propria vocazione. E se la Chiesa tutta non può non essere inquietata da questa emergenza umanitaria, ancor più la Chiesa che è tra i militari se ne deve sentire interpellata. L’accoglienza pastorale dei rifugiati porta alla luce un nuovo, vasto, e direi entusiasmante campo di evangelizzazione e carità per l’Apostolato militare internazionale, attento all’annuncio evangelico e alla promozione della cultura della pace. Come Chiesa, siamo anzitutto chiamati a identificare e fronteggiare con decisione, ogni qualvolta si presenti, la piaga scoperta di una mentalità discriminatoria e xenofobica che fa dei nostri mari nuovi campi di sterminio. E siamo chiamati a ricordare, assieme al Pontefice, come «l’Europa, aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, abbia gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti» (Discorso al corpo diplomatico, 11 gennaio 2016).
Ma l’opera di evangelizzazione non si esaurisce qui. Il Vangelo è il segreto che, da una parte, nutre la carità dei militari ma che pure ne sostiene la vita, soprattutto coloro che sono coinvolti in operazioni difficili o costretti a constatarne il fallimento, qualora i tentativi di salvare vite umane si trasformino, a esempio, in recupero di cadaveri. Il Vangelo educa al senso della vita e della morte, a una vita interiore capace di crescere e testimoniare la speranza nel trascendente e nell’eterno. Il Vangelo è anche la via con la quale i nostri militari possono combattere le radici della guerra: rintracciarne le cause remote e lottare contro le ingiustizie, le violenze, la povertà, l’ignoranza, la discriminazione; raggiungerne le radici antropologiche, costruendo modelli di convivenza, dialogo, pace, perdono; modelli che dimostrino come il rispetto e la riconciliazione non siano strade perdenti, neppure in senso socio-politico. E non è forse questa la prospettiva dell’enciclica Laudato si’ e l’invito dell’anno della misericordia?
Ecco, dunque, la missione consegnata oggi ai militari cristiani e a tutto il mondo militare: trasformare quei confini, che altri vogliono serrare, in varchi di accoglienza nella nostra «casa comune», in porte sante, attraversando le quali i rifugiati possano «fare esperienza della divina misericordia anche grazie alle persone che li aiutano» (Angelus, 17 gennaio 2016).

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