6 novembre 2015

Con le vecchie, le nuove povertà

L’intervento di monsignor Enrico Feroci alla presentazione della Lettera alla città del cardinale Agostino Vallini nella Basilica di San Giovanni in Laterano.

Un’esperienza recente: mese di giugno, qui a Roma, in auto da via Nomentana verso Piazza Bologna, (procedevo per la via complanare). Arrivato all’ingresso della galleria della Tangenziale Est sotto la stazione Tiburtina, vedo un grande avviso di divieto di transito, (luce luminosissima bianca con il bordo rosso ) ed accanto la motivazione, a caratteri cubitali, chiarissima: “Incendio in galleria!” Ebbene: le auto entrano nel tunnel senza alcuna esitazione, e senza diminuire la velocità…Avanti! E l’avviso ordina: “Alt! Incendio!” Nei fatti la scritta è rimasta fissa e senza alcun effetto per più di venti giorni: le auto hanno continuato ad infilarsi in quel buio, con l’avviso di pericolo… Un’anomalia? Una sventatezza tutta moderna? Un caso senza causa precisa e per fortuna senza immediati effetti tragici? Certo, ma ora qui e per noi una metafora.

Continuo… Il 24 agosto scorso su un quotidiano romano trovo un servizio su Roma disegnata così: “cresciuta a dismisura, affastellando periferie a periferie, baraccopoli a quartieri di edilizia popolare malvissuti perché malpensati,…”ecc. E su quel giornale una domanda secca: “Roma è malata?”
Feroci375_300Una metafora? Sì, ma non solo di oggi. Ricordo che già nel 1974 – preistoria per tanti di noi – si parlò molto, anche dalle nostre parti di Diocesi, di “Mali di Roma”, come venne a chiamarsi un incontro di Chiesa che doveva dedicarsi a ricordare “Le attese di Giustizia e di Carità” della nostra comunità, alla luce del Concilio terminato allora da soli 9 anni… Dunque, già in quei tempi “i mali di Roma”. Ebbene: la relazione introduttiva per questo importante Convegno di Chiesa diocesana fu affidata ad un sociologo già di fama: Giuseppe De Rita…
Già allora su Roma e i suoi “mali”? Sì. E ancora oggi, ancora allo stesso prof. De Rita di recente abbiamo letto che qualcuno ha chiesto se avesse un senso “utilizzare l’espressione ‘Roma città malata”, e lui oggi ha risposto così: “…Partirei col dire che quella romana è una società fragile, debole, frastagliata…”. Ecco: Roma fragile, debole, frammentata, come fatta a pezzi…E a rischio di dissolvimento progressivo: era quella di ieri, ma è anche questa di oggi…
Dunque da tempo e da più parti ci arrivano messaggi di allerta sui pericoli che corre la nostra città. Oggi siamo qui per rilanciare l’allarme, per risvegliare l’attenzione sull’ “incendio” nel tunnel in cui pare che talora siamo entrati senza minimamente rallentare, e nel quale se non ci fermiamo per tempo rischiamo tutti di bruciare.

Allarme giusto. Per sottolineare, però, le fragilità della nostra città. Ma vorrei farlo con la delicatezza dell’artigiano esperto, che ha in mano una preziosa opera d’arte ed è chiamato al restauro. Vorrei fare le veci di quel cartello che dice: “incendio in galleria”, cercando di farmi ascoltare, non per desiderio di sovraesposizione ma per evitare mali maggiori. Sì! “Incendio in galleria” e l’allarme, qui, non è ripetitivo di quello che si può leggere sulle pagine dei quotidiani romani, e anche su quelle delle indagini e dei processi per criminalità più o meno organizzate e tollerate dall’incuria comune… Oggi sono grandi i pericoli che corre la nostra Città, in tutti i suoi componenti…Pagine piene di cose grosse e vergognose che talora arrivano alle istituzioni, tutte, e corrono il rischio di cancellare la differenza tra chi serve Roma, e chi di Roma si serve per i suoi interessi, spesso loschi…Non ci nascondiamo: qualche schizzo di fango di recente ha toccato anche ambienti non del tutto estranei alla nostra comunità…
Questo allarme, mio e nostro, qui innanzitutto si riferisce al manifestarsi dei nuovi tipi di povertà, che si affiancano a quelli tradizionali, ai quali questa nostra città ha saputo rispondere negli anni passati con impegno eccezionale.

Guardiamo la realtà: Ne abbiamo viva e bruciante coscienza, ed oggi siamo qui anche per questo, per dire “I care” (mi sta a cuore), come ha insegnato Don Lorenzo Milani, per dire che ci sta a cuore, questa città! La dicono “eterna”, ed è un pregio di quasi tre millenni, ma la vera eternità oggi ci pare quella dei problemi collettivi e individuali irrisolti, quella dei rischi di decomposizione, dell’inguaribilità di malattie i cui sintomi avvertiamo ad ogni passo, in basso e in alto, nei governati e nel personale di governo della stessa: la cronaca, anche nera e vergognosa dove meno dovrebbe esserci, quella che prima di trovarla ogni giorno in pagina sui giornali e che, amaramente, talora pare toccarci da vicino, lo mostra ogni giorno…

1) Attenzione: il primo pericolo, che oggi costituisce il vero dramma “antropologico” è l’esasperazione dell’individualismo e dell’utilitarismo. Non siamo abituati a chi pensa agli altri, e allora chi lo dimostra ci sorprende… Per questo ci ha sorpreso Papa Francesco quando fino dal primo incontro ci ha salutato con quel “Buona sera!”. Ha pensato subito, pur in quel momento nel quale Lui era al centro di tutto, a noi… al suo popolo, dell’ “Urbe” e dell’ “Orbe”, del mondo intero…
Troppe volte la realtà, mia e nostra, è diversa: abbasso gli occhi davanti all’altro che non conosco, anche quando entro in chiesa. Vedo nell’altro non qualcuno da amare e accogliere, ma appunto solo “l’altro”, qualcuno cui guardare con diffidenza, qualcuno col quale al massimo posso fare uno scambio: “do ut des”, e niente altro. Se da te non posso ricavare nessuna utilità, per me sei solo un problema in più, non mi interessi. Io ti scarto!

Lasciatemi dire, anche, che la piaga dell’individualismo e dell’utilitarismo dilaga nella nostra società perché essa è costituita ormai da troppe persone stanche, in continuo affanno e preoccupazione per sé. Le ragioni sono molteplici e non abbiamo qui il tempo di analizzarle. Però possiamo soffermarci sulle conseguenze di tale fatto: questa stanchezza produce in tutti noi la necessità di accantonare, archiviare quello che è oltre e dopo noi stessi. E così si avvia una tendenza generalizzata allo scarto, a cui di continuo Papa Francesco ci richiama… Ecco allora che i poveri, i malati, gli anziani, coloro che sono affetti da dipendenze, i disoccupati, i migranti, le persone, insomma, che non sono “efficienti”, vengono visti non come questione importante che ci interroga e ci coinvolge, tutti, ma come fastidi, fardelli inutili, qualcosa da ricacciare indietro, almeno da allontanare – “non qui!”, sentiamo gridare – perché “gli scarti” minacciano il nostro fortino di certezze e benessere. E se invece provassimo a cambiare prospettiva, magari in modo “rivoluzionario”?

Il Gran Mufti di Bosnia, Mustafa Cerić, indica la crisi in sette peccati: “L’Occidente deve passare per una rivoluzione spirituale, l’attuale collasso economico non è una questione di crisi finanziaria, è una crisi morale. Credo che l’Occidente sia colpevole di sette grandi peccati: Benessere senza lavoro. Educazione senza morale. Affari senza etica. Piacere senza coscienza. Politica senza principi. Scienza senza responsabilità. Società senza famiglia.
Sette peccati, capitali, e qui anche della Capitale, la nostra città. Andrebbero approfonditi uno per uno, a partire da quel “benessere senza lavoro” che dice certamente corruzione e utilizzo del prossimo come una cosa da sfruttare…
E allora, cosa facciamo? Incendio in galleria! Tornando all’immagine iniziale: entriamo nel tunnel senza pensarci? Oppure ci fermiamo, cerchiamo di renderci conto di quello che sta avvenendo? Ci buttiamo nel fuoco?

2) Ancora. Provo sempre un grande imbarazzo, anzi, un grande dolore quando parlo con qualcuno della fascia d’età tra i trenta ed i quarant’anni, i cosiddetti “giovani adulti”. Non vi chiedo se li avere mai incontrati: è ovvio che li avete ben presenti! Ma li avete mai ascoltati? Avete colto la disperazione, che non appare sempre sul loro volto, ma viene fuori appena si apre uno spiraglio di vero ascolto perché sono senza lavoro, non hanno la possibilità di avere una famiglia, dei figli, si sentono ormai tagliati fuori dal mondo della produzione? Avete percepito l’enorme preoccupazione sul domani? Fra 25 anni avranno l‘età della pensione. Quale pensione? Saranno l’enorme massa di gente in fila alle mense della Caritas? Dobbiamo rassegnarci a questo futuro? Loro dovrebbero, per natura, essere gli educatori delle nuove generazioni e invece non si sentono e non sono più punti di riferimento: spesso neppure per se stessi!
La crisi ha portato precarietà, disoccupazione, e a volte rinuncia agli studi. Siamo di fronte ad uno spreco di capitale preziosissimo, una preziosa ricchezza umana, come è prezioso l’uomo chiamato a vita e salvezza: cosa senza precedenti che impoverisce il paese con conseguenze nascoste, ma drammatiche… C’è un’intera generazione cui non è concesso valorizzare i propri talenti, a cui non è permesso progettare il futuro: è la prima generazione, dopo decenni, in cui le aspettative in termini di ricchezza e qualità di vita sono inferiori alla generazione precedente. E certamente, se non spegniamo l’incendio, non sarà l’ultima a trovarsi in queste condizioni…A Roma riscontriamo nei nostri servizi il riemergere di vecchie marginalità, ma con una complessità più spiccata: ad esempio il ritorno alla tossicodipendenza da eroina e oppiacei non più per motivi ideologici, ma utilizzata per alienazione esistenziale. Aleggia su tanti, troppi, lo spettro del “nichilismo” vitale…

3) Paradossalmente, oltre quella dei giovani c’è, e cresce, anche la povertà degli anziani, dopo che questi hanno sostenuto l’impatto delle difficoltà logistiche e lavorative dei figli. A Roma gli over 65 sono 638.000 su una popolazione totale di 2.900.000 persone. Gli operatori della Caritas che entrano nelle case degli anziani ci dicono che aumentano le situazioni domestiche di abbandono, cui naturalmente presto si aggiungono problemi di igiene e cura della persona che portano ad un nuovo “barbonismo domestico”, spesso, e forse sempre accompagnato da una crescita delle patologie psichiatriche e da un elevato rischio di morte in casa. E’ cronaca di questi giorni! I giornali scrivono: “Fantasmi. Anziani dimenticati nelle loro case, morti nell’indifferenza”. Sconcertante il fatto della ex insegnante trovata senza vita, forse dopo due anni, a Ponte di Nona! E i fratelli trovati morti, nel mese di agosto, a Monteverde? E a Pietralata la persona trovata morta dopo dieci giorni a settembre scorso? Mi dicono che nel 2014 le vittime da abbandono totale sono state un centinaio.

Da bambino – mi sono state sempre vivamente presenti quelle immagini – ho visto un film sul Giappone di allora, che raccontava la vicenda di un figlio che prendeva sulle spalle il vecchio padre e lo accompagnava su un monte, per lasciarlo poi lì. Si dice sia costume anche di altri paesi: anziani portati allo scarico, in quel caso anche in mezzo alla nebbia dove altri avevano già, o avrebbero via via portato gli anziani genitori a morire. Ci stiamo avvicinando alla mantagna sacra dell’abbandono? Siamo diventati insensibili e dal cuore di pietra?

4) E ancora. Attenzione particolare va dedicata alla famiglia. Siamo appena stati spettatori interessati del Sinodo dedicatole da Papa Francesco, libero, vitale, segnato dalla presenza dello Spirito Santo, come Egli ha ricordato nell’Omelia di conclusione. Dunque la famiglia.
Prima affermazione: come Chiesa rifiutiamo una visione della famiglia come mero sistema di bisogni, la famiglia è la cellula primaria e vitale della nostra società. La realtà è allarmante. Le situazioni di difficoltà familiari dovute spesso a povertà materiali e non isolano sempre più la famiglia stessa dalla comunità: la vergogna, i sensi di colpa, lo stigma che sembra cadere addosso, il senso del fallimento, la depressione, la rinuncia obbligata a far proseguire gli studi ai figli, sono elementi che hanno implicazioni sociali gravissime, se non accompagnate da una efficace rete di comunità capace di sostenere e includere. Realtà effettiva!
Seconda affermazione: oggi noi siamo qui non solo per denunciare delle responsabilità sociali, ma per condividerle. E allora siamo in condizione di chiedere alle istituzioni una politica coordinata sulla famiglia, una nuova pianificazione di welfare territoriale che la famiglia la abbia al centro, e che tuteli soprattutto le famiglie più vulnerabili: le famiglie numerose, quelle che hanno un disabile o un anziano non autosufficiente, le famiglie monoparentali, le famiglie dove un coniuge o entrambi hanno perso il lavoro… Cosa si fa realmente, in questo ambito fondamentale? Dicono che la nostra legislazione attuale abbia ancora enormi vuoti, nel settore della promozione autentica della famiglia.

5) Ancora, “incendio in galleria!” Leggo da una scheda del Centro d’ascolto Caritas: “…L’uomo ha 52 anni, sposato con due figlie, di 15 e 14 anni. Sia lui (da 30 anni) che la moglie sono dipendenti del Ministero della Pubblica Istruzione. Nei primi anni di matrimonio (dal 1992 al ’98) la coppia ha perso tre figli (un aborto spontaneo e due morti dopo la nascita). Poco più di 4 anni fa ha iniziato a comprare “i grattini” (gratta e vinci) che lo hanno portato ad accumulare un debito che oggi ammonta a ottocentocinquanta mila euro (850.000 €). Si recava nelle tabaccherie, si sedeva e così, a suo dire, si rilassava… asserisce di non riuscire a trovare una causa a tutto ciò, ha iniziato e basta, e non riesce a smettere, nonostante la sofferenza provocata alla famiglia e i vari tentativi di smettere (psicologo e gruppi di mutuo-aiuto). Prendeva “in giro tutti” come afferma, perché sia prima che dopo l’incontro con il gruppo o con lo psicologo, passava in tabaccheria e giocava. Hanno dovuto vendere la casa che possedevano e fare un mutuo per un’altra, ha acceso diversi prestiti, ha debiti con amici, parenti, colleghi e “gente poco raccomandabile”, ha venduto i gioielli di famiglia…

Ecco un altro grido: lo sciacallaggio sulle fasce deboli della società con il gioco d’azzardo. Ormai è noto che Roma è divenuta la capitale europea del gioco d’azzardo. A Roma ci sono 24.931 slot machine…ha la sala più grande con 900 postazioni… A Roma ogni cittadino spende all’anno 1.386 euro per gioco d’azzardo e scommesse, più di quanto spenda per riscaldare le sua abitazione o di quanto gli occorra per le cure mediche. Slot machine, gratta e vinci, scommesse, videopoker e concorsi a premi rappresentano il 12 per cento della spesa per consumi e il 4,5 per cento del Pil provinciale.
Tutto alla luce del sole. “Avvenire”, domenica 18 ottobre, parlava di “inspiegabile azzardo di governo”. Ci si chiedeva se, a Roma, i solerti tecnici dell’Economia si fossero accorti di tutto questo e se i politici si rendano conto che invece di ridurre la metastasi dell’azzardo (aggravata in gran parte dalle devastanti infiltrazioni delle mafie) stanno contribuendo ad aggravarla. I danni dell’azzardo sono sempre più visibili, e in modo sempre più duro e triste. I media e la buro-politica hanno il potere (noi diciamo il DOVERE ) di dire basta, ma finora non lo dicono…

6) E come terminare senza ricordare un dramma che sta sotto gli occhi di tutti: l’immigrazione. La domanda già si era posta, anni orsono: quale nuovo mondo si apre per i figli, in una società multietnica, multireligiosa e quindi multiculturale? Come sarà Roma fra 10 anni? E rimane, in altre forme: quali le mentalità più diffuse sugli orientamenti politici attuali e futuri, nei fatti prevalentemente restrittivi, rispetto all’accoglienza degli stranieri? Sono tante la povertà attuali, con cui dobbiamo confrontarci? Oggi le grandi povertà del mondo bussano alla nostra porta e ci chiedono di dare delle risposte.
Sarebbe davvero sciocco e miope non voler guardare la realtà, che ci offre le tante sofferenze che vengono a turbare le nostre sicurezze e a cambiare le nostre abitudini. Guardare per vedere. Ma vedere non basta. A noi cristiani il Vangelo chiede di farlo con amore, perché questo, e solo questo è il grande comandamento, da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti.
Per gli altri, credo (e spero), varrà l’intelligenza politica e la risposta necessaria a problemi ineludibili.
Ma per noi? Riprendo la metafora dell’inizio. La scritta “incendio in galleria” ha campeggiato per tanti giorni. In quel periodo nessuna autorità è passata per quella strada? Se quella informazione fosse stata vera quante tragedie sarebbero avvenute? Mi sono però domandato: Ed io, che ho visto, cosa ho fatto? Ho atteso che altri si muovessero?
La deresponsabilizzazione, diceva Ghandi, è la forma più alta di violenza. Certamente noi non ci dobbiamo inventare una società diversa, ma dobbiamo vivere diversamente questa nostra società, questo nostro stare insieme.

Prima, nell’elencazione dei mali di Roma, ho fatto riferimento al nostro essere divenuti una società individualista, disunita, frastagliata, egoista. E non mi riferivo ad una parte sola della nostra cittadinanza. Lo siamo tutti, in qualche modo: se ci pensiamo bene siamo tutti un po’ stanchi, affaticati. Ma questo non ci giustifica, almeno non pienamente. Infatti se è vero che siamo abbattuti da troppo tempo da una povertà ideale, culturale, etica che ci ha resi ciechi e sordi e muti oggi è giunto il tempo di dire basta! La nuova consapevolezza che sta affiorando da più parti, i numerosi richiami (non ultimi quelli di Papa Francesco) inchiodano noi educatori – Chiesa, istituzioni pubbliche, tra cui in primo piano la scuola – alle nostre responsabilità troppo spesso mancate!

E allora che fare? Poco fa ho ripreso le parole di quel “leader non cattolico” sui sette grandi peccati dell’Europa, tutti basati sulla omissione, su un “senza”. Qualcuno ci suggerisce di accettare il giudizio, ma con l’aggiunta di una sola parola. “Sostituire i “senza” con altrettanti “con”. E allora le cose iniziano a cambiare: il benessere lo viviamo con il lavoro, l’educazione con la morale, gli affari con l’etica, i piaceri con la coscienza, la politica con i principi, la scienza con la responsabilità, la società con la famiglia. Cambia molto: forse cambia tutto…

Nell’Enciclica “Laudato si”, Papa Francesco dice “Non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo. Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente”. Parole da meditare e fare nostre. Ciascuno di noi, nel proprio vivere quotidiano, nei rapporti familiari, amicali, di lavoro, in ogni sua manifestazione, ha la possibilità di innescare un cambiamento positivo. Vi è una parte della città che ha mantenuto viva la voglia di fare qualcosa di buono. La comunità cristiana di Roma è ancora capace di generare energie positive, ma queste spesso vengono frustrate dalla malagestione e trovano il muro di gomma della cattiva amministrazione. E allora, di fronte al disfacimento morale, di fronte a queste vecchie e nuove povertà, eccoci qui a chiederci cosa possiamo fare per questa nostra città? Quale può essere il ruolo della Chiesa di Roma? La nostra risposta è nel titolo della “lettera” del Cardinale Vicario alla città: “La Chiesa, dono per la città”.
Credo che nella parola “dono” ci sia la risposta e la soluzione alla domanda se sia possibile rendere più giusta la società, ed in particolare questa nostra comunità. Il dono con cui la Chiesa può arricchire Roma è la testimonianza della realizzazione del comandamento di Cristo. La fraternità deve essere il nostro dono.
Fraternità: parola non nuova, non esclusiva del cristianesimo e cara anche ai veri laici: era nel motto triplice della Rivoluzione francese: “fraternité”. Per il pensiero illuminista un nobile principio etico, per noi la fratellanza è “ontologica”: non potremmo dirci cristiani se non consideriamo il nostro prossimo come nostro fratello. Gesù, nel passo decisivo del giudizio su tutto ciò che siamo e che viviamo ci dice che Dio ci chiederà conto di come avremo trattato il nostro fratello, ci dice che tutto quello che abbiamo fatto, o non abbiamo fatto al nostro fratello, e come se l’avessimo o non l’avessimo fatto a Lui. Papa Francesco di recente, negli Stati Uniti, ha ricordato che qui è “il nucleo nel quale tutto si annoda: “Lo avrete fatto a me!” Ecco perché la parola ci ricorda che Gesù biasima il sacerdote, persona di fede e rispettosa dei precetti, che “cambia strada” – passa sull’altro marciapiede, dice il testo evangelico – di fronte al viandante ferito, e loda il samaritano, l’esemplare allora della distanza dalla fede vera, che però soccorre il viandante ferito: non ha conosciuto il vero Dio, ma di fatto lo ha riconosciuto nel viandante “mezzo morto”, e quindi viene “riconosciuto” da Dio stesso: “Lo hai fatto a me!…Entra nella gioia del tuo Signore!” (Mt. 25)

“Chi potrà salvarsi?” domandano gli apostoli a Cristo. “ Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio” risponde Gesù. Noi supplichiamo, ancora una volta, la “Salus Populi Romani”.