7 marzo 2015

IL CALVARIO DEI MASAI

Prosegue l’esproprio delle terre ancestrali dei pastori masai di Loliondo per garantire il sollazzo di pochi ricchi privilegiati in una riserva di caccia esclusiva, data in concessione alla società di un cittadino di Dubai. Un insopportabile caso di land grabbing. Ma i masai preferiscono morire piuttosto che perdere la loro terra.
di Bianca Saini


Nella foto in alto dei masai nel parco del Serengeti in Tanzania (fonte: walldesk.net). Sopra una mappa della Tanzania con in evidenza la posizione della località di Loliondo e l'ultimo video prodotto il 25 febbraio scorso dalle comunità masai locali per perorare la loro causa, intitolato "Olosho".
Il sito web the Ecologist denuncia la ripresa dell’espulsione delle comunità di pastori masai di Loliondo dalle loro terre ancestrali, nel nord della Tanzania, ai confini con il Kenya, per far posto ad una riserva di caccia esclusiva. Si tratta di un caso di land grabbing particolarmente odioso, perché priva decine di migliaia di persone dei propri mezzi di sussistenza e delle radici stesse della propria identità per far posto al divertimento di pochi straricchi privilegiati. Senza parlare del tipo di divertimento, francamente ben poco “politically correct” in un momento storico in cui lo sforzo è quello della conservazione della biodiversità, in particolare della fauna africana, che ha rischiato, e in parte ancora rischia, l’estinzione.
La storia ha inizio nel 1992, quando il governo della Tanzania da la licenza di organizzare battute di caccia nella zona alla Ortelo Businness Corporation (Obc) di proprietà di un cittadino di Dubai, imparentato con la famiglia regnante dell’emirato, permettendogli di espandere la riserva su 1500 km² di territorio masai. Da allora la compagnia vi ha costruito un aeroporto privato e un resort esclusivo, ma soprattutto ha messo in atto misure che hanno di fatto limitato il diritto dei pastori masai di utilizzare la propria terra per il pascolo e di accedere ai pozzi e alle sorgenti. Nonostante le difficoltà, per circa vent’anni si era trovata una modalità di convivenza. Nel 2009, però, è entrata in vigore una legge che impedisce attività di pascolo e coltivazione su quel territorio. È da allora che i masai di Loliondo subiscono periodicamente tentativi “legali” di espulsione dalla loro terra, anche con l’uso della forza.
L’ultimo assalto risale alla metà di febbraio, quando i ranger del parco nazionale del Serengeti (Senapa) hanno cacciato gli abitanti con la minaccia delle armi, bruciando almeno 114 compound e lasciando senza casa, cibo e assistenza medica dalle 2000 alle 3000 persone, compresi molti bambini. Fonti locali aggiungono che il 21 febbraio il governo ha inoltre intimato alla comunità di lasciare l’area entro 14 giorni, dunque sono prevedibili nuove violenze.
Eppure, lo scorso novembre, forse per la pressione internazionale dovuta anche ad una petizione diAvaaz.org firmata da oltre 2 milioni di persone, il presidente tanzaniano, Jakaya Kikwete, aveva dichiarato, via twitter che «Non c’è mai stato e mai ci sarà nessun piano del governo della Tanzania di espellere i masai dalle loro terre ancestrali». Ma, fanno ora osservare i leader comunitari di Loliondo, alle dichiarazioni informali su twitter non era seguito nessun documento formale.
Il calvario di queste comunità è iniziato alla fine degli anni ’50, ancora in epoca coloniale, quando furono espulse da buona parte delle loro terre ancestrali per far posto al parco del Serengeti. Il territorio loro concesso era ristretto tra i parchi del Serengeti, del Masai Mara e di Ngorongoro. È da questo ultimo scampolo di territorio ancestrale, dove a fatica hanno ricostruito la propria vita individuale, sociale, economica, culturale e comunitaria, che vengono ora scacciati, in cambio, si dice, di un compenso di 500.000 dollari, di cui i masai non sanno che fare. «La terra è la base della vita. Tiene tutto insieme, animali, gente e cultura. Perdere la terra significa perdere tutto. Preferiamo morire piuttosto che perdere la nostra terra. Vogliono prendere tutta questa terra. Dove si aspettano che andiamo?».  Così si esprime una donna masai in un’intervista raccolta per un documentario sulla situazione e nessuna dichiarazione può essere più efficace di questa.


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